Lo smart working sposta soldi: chi ci rimette e chi ci guadagna. Indietro non si torna, ma c'è bisogno di una gradualità nella sua applicazione, per non distruggere valore e produttività. Ormai fa parte della nostra vita lavorativa e va governato, nelle modalità e nelle quantità.
Confesercenti ha pubblicato un dossier Cambia il lavoro, cambiano le città che accende un faro sulle implicazioni di questo nuovo modo di lavorare. L'ha fatto ipotizzando che diventi strutturale, che significa far lavorare stabilmente da casa 6,2 milioni di persone: una rivoluzione, appunto, il cui identikit suona più o meno così. Le famiglie spenderebbero meno per tutto ciò che comporta uscire di casa e rimanerci l'intera giornata, dai trasporti al pranzo, dal parrucchiere al vestito da cambiare. Pur considerando i costi associati al lavoro da casa, dalla connessione wi-fi alla maggiore spesa alimentare, le stime di Confesercenti parlano di 10 miliardi all'anno risparmiati. Dal lato delle imprese è più articolato. Uffici meno grandi, bollette meno salate, note spese più leggere e altro farebbero spendere circa 12,5 miliardi in meno. Ovviamente, ciò che alcuni segnano come minori spese per altri è fatturato che manca. Imprese o famiglie che siano, il risparmio è molto dolce in superficie ma velenoso nel nocciolo, visto che le economie derivano la loro floridezza dal consumo e non dalla sua assenza.
Proseguendo, il dossier evidenzia poi il calo di fatturato, stimato in 25 miliardi, per tutte le attività che ruotano attorno a chi si muove per lavoro, che sia il bar che vende cappuccini e cornetti, gli alberghi o i trasporti. Il calo di giro d'affari porta alla contrazione dell'apparato produttivo quantificabile, secondo il dossier, in oltre 20.000 attività e poco meno di centomila addetti, concentrati nel centro delle grandi città, non bilanciata dalla corrispondente crescita nelle periferie. Nel complesso, lasciare a casa oltre 6 milioni di persone sarebbe un bel terremoto. Per Mauro Bussoni, segretario generale di Confesercenti, «il senso dello studio è portare all'attenzione che lo smart working sta cambiando l'assetto delle città, con un effetto centrifugo che va governato. Come in tutti i grandi fenomeni di cambiamento sociale, c'è chi perde e chi guadagna: occorre che chi governa le città sappia programmare per tempo».
Questa fotografia rende bene l'impatto sulle attività direttamente legate ai consumi dell'ufficio e intorno all'ufficio. Ma dentro gli uffici il fenomeno, se realizzato in termini assoluti, sarebbe ben più devastante. L'isolamento fisico surrogato da uno schermo distruggerebbe la parte migliore della professionalità delle persone, abbassandone la produttività. Non certo quella del lavoro frutto del singolo, ma quella che viene dall'interazione con gli altri, quindi legata all'intelligenza delle persone.
Uno studio della Società del Marketing, un think tank, che ha coinvolto oltre 30 manager di multinazionali in una ricerca durata un anno, sottolinea come lo smart working abbia funzionato bene nel lockdown proprio grazie al capitale umano, frutto di quelle relazioni che oggi si vorrebbero eliminare. L'ufficio non è solo il luogo della produzione, ma anche dove le persone stanno insieme e, condividendo la tensione verso il risultato, trovano soluzioni che aumentano la performance dell'impresa, favorendo nel contempo la loro crescita professionale.
Ora questo luogo è stato aperto e disarticolato e non c'è modo di rimettere il dentifricio nel tubetto, perché nessuno in fondo lo vuole. Avere la possibilità di operare da remoto con flessibilità, senza essere costretti ogni giorno a uno spostamento non sempre necessario, è un beneficio venuto con la tecnologia.
Ma siamo all'inizio e non alla fine del percorso. La sfida è di non disperdere quel luogo di relazioni, mentre ci consentiamo di dislocare la presenza nello spazio e nel tempo. Ciò che abbiamo assaggiato col lockdown non è male. Facciamo che non sia indigesto.
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