La questione c'è e non è una boutade del ministro Guido Crosetto. «Purtroppo i soliti ben informati - confida uno dei più potenti ex ministri dei governi del centrodestra, oggi in una posizione più defilata - prevedono che arriveranno i soliti avvisi di garanzia a membri dell'esecutivo o a persone vicine al Premier». Il personaggio, che ne ha viste tante nello scorrere degli anni della Seconda Repubblica, lo dice con un tono fatalista. «Quando ero ministro - spiega - dopo le prime esperienze mi sono comportato come se avessi un Pm che mi seguisse come un'ombra. Perché per chi sta sul versante di centrodestra anche l'essere ligio viene trasformato in un reato. Immagini come sono esposti quei parvenu che sono al governo, che sono stati sempre fuori dal Palazzo. Un pm ci mette poco a pescare nel loro passato, a trasformare un'inezia in un'accusa. Poi probabilmente ne usciranno tutti indenni ma intanto il danno è stato provocato».
Questa è l'aria che si respira nella coalizione. L'atmosfera a cui Crosetto con le sue parole ha dato voce. E che magari dovrebbe spingere lo stato maggiore del centrodestra ad un supplemento di riflessione: ma è davvero una buona idea tergiversare sulla riforma della giustizia per dare la precedenza a quella sul Premierato? O sarebbe meglio portare avanti le due riforme parallelamente, o, addirittura, far precedere quella che riguarda il nostro ordinamento giudiziario a quella che interviene sulla forma di governo?
Il rebus sta lì da tempo, viene sciolto in un modo ma subito dopo è la realtà a riproporlo. Anche perché nella mente di chi ha vissuto l'epopea berlusconiana rispunta la nevrosi dei corsi e ricorsi di una storia di trent'anni in cui il cammino di una coalizione spesso vincente veniva bloccato dal macigno di qualche iniziativa giudiziaria. Iniziative che poi spesso sfociavano nel nulla ma che nell'immediato arrecavano guasti irreparabili: dalla crisi del primo governo del Cavaliere in poi. E la ragione è semplice: un pezzo di magistratura (magistratura democratica, ad esempio), oggi come allora, è convinta di avere una missione civile di «garanzia», rifiuta l'idea dell'«apoliticità» o del magistrato «burocrate», ma ha una visione del ruolo delle toghe come interpreti dirette, senza la mediazione della politica, dei principi costituzionali e della carta dei diritti umani fondamentali per i migranti o, chessò, per i lavoratori marginali. Insomma, si assegna un ruolo politico che mette a dura prova lo stesso concetto di «imparzialità» del giudice. Tanto più che non si tratta di una posizione culturale sul diritto, ma di un credo, di un'ideologia.
Ecco perché è complicato, se non impossibile, trattare con questo pezzo di magistratura che si ritaglia un ruolo antagonista con la politica in genere e con il centrodestra in particolare modo. Qui si tratta di riaffermare il concetto di «imparzialità» del magistrato e, di fatto, dell'«apoliticità» nello svolgere la sua funzione. E è quello cui dovrebbe puntare la riforma partendo dalla separazione delle carriere tra giudici e Pm, a tutto il resto.
Se il conflitto è di questa natura alla coalizione di governo conviene fare queste riforme prima non tanto delle elezioni europee quanto del referendum sul Premierato. Anche perché l'impostazione ideologica di questo pezzo di magistratura considererà l'elezione diretta del Premier - ci vuole poco a capirlo - una svolta autoritaria, un attentato alla Costituzione. E si sentirà in diritto di usare tutte le armi, proprio tutte, per impedirlo. E visto che è nelle cose che il referendum si trasformi in un referendum sulla Meloni e sul suo governo, non c'è nulla di più efficace di lanciare delle «ombre» sul loro operato.
Ombre che debbono durare solo qualche mese, quel tanto necessario per dire nello scontro politico: ma volete assegnare tutto il potere a tipi del genere? Ecco perché a Palazzo Chigi farebbero bene a ripescare un vecchio andante di Renzo Arbore: meditate gente, meditate...- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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