L'assemblea costituente, proposta dalla Fondazione Einaudi e raccolta da il Giornale, è la via maestra per riformare le istituzioni e uscire una buona volta dal Novecento. L'esigenza di dare una nuova forma al rapporto tra Stato e cittadini è molteplice. Riguarda il bicameralismo, l'esecutivo, la magistratura e anche la scuola e l'università che ormai da molto tempo non sono in grado di garantire la formazione della classe dirigente. Anzi, se osserviamo la crisi politico-istituzionale dell'Italia prendendo posto nella scuola capiamo facilmente che siamo davanti a un cane che si morde la coda: il sistema dell'istruzione e della ricerca crea analfabeti funzionali o di ritorno che diventano classe dirigente di serie B o di serie C che non riesce ad assicurare buongoverno e riforme. Ad ogni giro si scende un girone infernale. Come se ne esce?
Nel dopoguerra e nell'assemblea costituzionale proprio Luigi Einaudi svolse una battaglia anti-corporativa che risulta per noi oggi preziosa. Noi liberali diceva il futuro presidente della Repubblica ai primi di maggio del 1946 vogliamo non solo abbattere e contrastare tutti i monopoli legali, ma anche tutti quei monopoli che dovessero ricostituirsi: «Siano monopoli dei datori di lavoro, siano monopoli dei lavoratori».
Tra i monopoli che non solo nacquero ma si irrobustirono nel corso della storia repubblicana c'è senz'altro la scuola che, purtroppo, fu concepita dai padri costituenti unicamente come «scuola di Stato» escludendo in modo ideologico la «scuola libera». Ma uno Stato in cui la scuola non è libera è destinato prima o poi, come dimostra sia la storia della scuola sia la storia delle istituzioni, a fallire perché ciò che effettivamente vale non è il lavoro e l'autorevolezza bensì il titolo e le carte. Ecco perché oggi il nostro problema si pone in modo inverso rispetto al dopoguerra: non una scuola di Stato di stampo napoleonico ma un sistema libero. La differenza è fondamentale: mentre con la «scuola di Stato» monopolista non si ha la «scuola libera», con la «scuola libera» si ha anche la «scuola di Stato». La differenza, come credo si capisca, è determinante perché ne va della libertà della cultura e del valore delle istituzioni.
Posto di fronte al famoso articolo 33 della Costituzione, come si comportò Einaudi? Votò contro dopo averlo criticato con cognizione di causa. Lo respinse e lo bocciò non solo come liberale, perché sapeva che si stava istituendo un monopolio, ma lo criticò e lo rifiutò soprattutto come uomo di scuola. Ancora oggi ci si accapiglia su quell'articolo e la sua nota formula «senza oneri per lo Stato» in modo furbesco e ideologico ossia stupido, mentre Einaudi settantacinque anni fa andava al cuore del problema: «Ho l'impressione che alla Costituente si corra, in materia di scuola, dietro alle parole invece che alla sostanza. Tutti vogliono la libertà dell'insegnamento; e tutti sono parimenti d'accordo nell'affermare la necessità degli esami di Stato quando si debbano rilasciare diplomi di laurea, di licenza, di abilitazione alle professioni. Ma libertà di insegnamento ed esami di Stato sono concetti incompatibili». Forse, oggi, queste parole, che sono sante, risultano di non facile comprensione a chi per costume mentale è abituato a fare la sbagliata equazione: Stato = Sapere oppure Stato = Scuola.
Eppure, basta guardare cosa son diventati i vari esami di Stato o considerare i test Invalsi per capire cosa ci sta dicendo ancora Einaudi: il fondamento della cultura e delle professioni non è l'autorità statale ma, al contrario, o l'autorità statale si basa sulla cultura e la sua indipendenza o è destinata al fallimento o alla dittatura.
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