Il via libera di Berlusconi

I due giorni di dibattito in Parlamento sulla fiducia al governo Meloni evidenziano un dato: la compattezza della maggioranza di centrodestra e le divisioni che albergano nell'opposizione

Il via libera di Berlusconi

I due giorni di dibattito in Parlamento sulla fiducia al governo Meloni evidenziano un dato: la compattezza della maggioranza di centrodestra e le divisioni che albergano nell'opposizione. Al di là delle scaramucce sui ministeri e magari quelle che probabilmente accompagneranno la nomina dei sottosegretari, la coalizione di governo la ritrovi unita sulle priorità e sulla filosofia che deve accompagnare i provvedimenti dell'esecutivo.

In un modo o nell'altro sul tetto al contante, sul fisco, sulla politica energetica e via dicendo, sia pure con toni diversi, sia pure tra le polemiche i partiti della maggioranza comunque si ritrovano. Anche sulla politica estera su cui si è polemizzato tanto in Italia: il timbro sull'atlantismo e l'europeismo del nuovo governo lo ha messo addirittura il Cremlino, che ieri ha giudicato l'Italia - anche con il centrodestra a Palazzo Chigi - «un Paese ostile».

E la ragione dell'unità mostrata nel battesimo del governo Meloni è radicata nel tempo: sono quasi trent'anni che Forza Italia, Lega e Fratelli d'Italia, nelle diverse versioni e trasformazioni, stanno insieme. Il collante è forte e chi ha messo in discussione l'alleanza in questi anni o è sparito dalla circolazione (vedi Angelino Alfano e non solo), o è tornato indietro (il Salvini del governo gialloverde).

È il merito che ha rivendicato ieri Silvio Berlusconi, tornato a parlare dopo nove anni in Senato. E che l'intero governo gli ha riconosciuto, dedicando al fondatore del centrodestra una standing ovation (fatto inedito) al termine del suo intervento. Certo, ora il Cav ha altri ruoli, gli equilibri tra i partiti della coalizione sono diversi, ma l'intuizione fondante, il blocco sociale ed elettorale di riferimento sono rimasti gli stessi. Quelli di trent'anni fa. E l'intuizione, appunto, il collante che tiene insieme una coalizione data spesso per morta, è il suo essere «plurale». Il centrodestra sopravvive solo se c'è la consapevolezza in chi lo guida che tutte e tre le culture politiche da cui è nato sono essenziali per rappresentare la maggioranza del Paese: è cambiato il peso elettorale dei diversi partiti, ma tutti sono indispensabili, sul piano numerico, politico e culturale. È un'affinità, una convergenza tra diversi che Berlusconi ha sempre coltivato in questi trent'anni. E la stessa cosa, se vuole durare, deve fare anche chi ne ha seguito le orme a Palazzo Chigi.

Una compattezza che contribuisce a dividere le opposizioni. Perché mentre le anime del centrodestra, alla prova dei fatti, ritrovano sempre una piattaforma comune, quelle della sinistra tendono a scomporsi. E la ragione è semplice: se il centro (Fi) che guarda a destra può convivere sia quando è egemone, sia quando è minoranza nella coalizione, il centro che proviene dalla sinistra (Azione, Italia Viva) per difendere la propria dignità politica, per sopravvivere, deve staccarsi.

Ieri l'intero intervento di Matteo Renzi è stato una sequenza di ironie su come il Pd e i grillini stanno impostando la loro opposizione al governo: compito facile, visto che dai banchi dell'opposizione in questi giorni hanno contestato alla Meloni pure il suo modo di essere donna. E poi c'è ancora chi si meraviglia se la sinistra perde le elezioni...

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