L'ultimo suo Consiglio dei ministri doveva essere quello del 26 gennaio, quando il premier uscente Giuseppe Conte era stato salutato con gli applausi dei colleghi. Invece è stato quello di ieri. Con anche l'ultimo decreto legge firmato dal presidente del Consiglio uscente. Una riunione veloce, di pochi minuti per varare le necessarie misure per il contenimento del virus: la proroga del divieto degli spostamenti tra le regioni fino al 25 febbraio - che doveva inizialmente arrivare fino al 5 marzo. Di fatto una «cortesia istituzionale», perché l'esecutivo giallorosso era rimasto in carica solo per il disbrigo degli affari correnti e urgenti, compresi tutti gli atti relativi all'emergenza sanitaria. La proroga delle restrizioni, sentito anche il premier incaricato Draghi, è stata quella di accorciare al minimo il periodo di proroga per lasciare al nuovo esecutivo le prossime scelte sulle restrizioni.
Un passaggio formale e rapido per una seconda e ultima uscita di scena senza spazi emotivi. Alle spalle l'amarezza per la «sconfitta» e la delusione dopo la speranza coltivata fino all'ultimo di un epilogo diverso da quello scritto con la chiamata al Quirinale dell'ex presidente della Bce. A poche ore dall'insediamento del nuovo governo Draghi, Conte lascia i palazzi ma non - come ha dichiarato pubblicamente - una carriera politica iniziata dal vertice. Con le parole pronunciate nella conferenza stampa improvvisata fuori da Palazzo Chigi all'indomani della chiamata di Draghi non ha nascosto le proprie ambizioni. Sebbene bruci ancora l'obbligata uscita di scena, - causata da uno strappo percepito ancora come «incomprensibile e ingiusto» da parte di Renzi - Conte non vuole disperdere quel consenso popolare che lo colloca in cima alla classifica del gradimento dei leader. Convinto di poter proseguire anche fuori da Chigi nel suo ruolo di federare dell'inedita alleanza giallorossa, punto di equilibrio tra Movimento cinque stelle, Pd e Leu, contro l'ascesa del centrodestra. Del resto ha smentito fino alle ultime ore la volontà di entrare nel nuovo governo come ministro: «Ho fatto a Draghi gli auguri di buon lavoro» si era limitato a dire dopo il lungo colloquio col premier incaricato. Per lui si era vociferato il ministero degli Esteri rimasto invece saldamente in mano a Luigi Di Maio. L'ipotesi di un avvicendamento era già stata allontanata dallo stesso Conte anche per scansare frizioni con il grillino che ambisce a riconquistare la leadership del Movimento.
Di certo il premier uscente è ancora in cerca di un destino politico, dopo che è stata esclusa anche la voce di una sua candidatura alle suppletive nel collegio di Siena per il M5s e approdare in Parlamento. La volontà di essere della partita l'ha affidata alle parole pronunciate all'assemblea degli eletti del M5s in cui ha appoggiato un esecutivo Draghi. Voltare le spalle a questo governo «vorrebbe dire voltarle al Paese», aveva detto invitando il Movimento a «rimanere al tavolo» per «dare una prospettiva al Paese».
Un
discorso da aspirante leader, tirato per la giacchetta soprattutto dagli alleati del Pd che avevano chiesto all'avvocato di tenere dritta la barra del Movimento a favore dell'ex presidente della Bce. Ora premier al posto suo.
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