Non ho alcuna intenzione di polemizzare con il presidente del Senato, tanto più dopo le insolenti e vacue contumelie del prolisso habitué del salotto di Lilli Gruber, A.Scarsi. Ma ho, come credo sia giusto, l'idea della gravitas delle istituzioni, che possono anche aprirsi ai gusti e ai costumi dell'attualità, ma senza perdere compostezza. Nel teatro dell'aula del Senato, un concerto di musica classica, diretto da Riccardo Muti o da Beatrice Venezi, è compatibile con l'aura del luogo, così come il canto lirico o le canzoni di un cantautore. Tutto questo senza scomporre mobili o rinunciare alla ritualità della liturgia.
L'ospite è ospite, e non attore sostituto, su un palcoscenico improvvisato con il presidente del Senato nelle vesti di presentatore. E questo perché l'ospite, l'attore, il conferenziere, e anche il cantante, sono chiamati per celebrare una occasione che riguarda l'istituzione e che non può sovvertirne i riti e il linguaggio. Il Senato ha un presidente che presiede e che celebra. Per manifestazioni informali ci sono molti spazi negli ambienti del Senato, in Palazzo Giustiniani, negli appartamenti del presidente. L'aula è il tempio della celebrazione che non può, neppure con le migliori intenzioni, di cui io non dubito, essere dissacrata. Rispetto ai principi laici della Repubblica ha lo stesso significato di una chiesa per il culto religioso. Va bene Bach, va bene Mozart, va bene Beethoven non va bene Vasco Rossi e neanche «Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte» che abbia sentito con indubbio divertimento. A quel punto, con la consapevolezza dei valori della resistenza, da cui il Senato discende, sarebbe stato meglio cantare «Bella Ciao». Ma è stato più facile accogliere Gianni Morandi durante la solenne e ufficiale celebrazione per il 75esimo anniversario del Senato della Repubblica che far cantare alla Scala Paolo Conte.
La cerimonia, se si può chiamare tale, è stata affettuosa e nostalgica, ma con una abbastanza inquietante distrazione dalle forme sopra ricordate (senza nulla togliere alla spontaneità di Ignazio La Russa che stava al centro dell'aula con il microfono in mano, presentando Morandi con il cameratismo proprio di Amadeus). La forma nelle cerimonie è tutto. E risultava anomalo che al posto dei banchi del Governo vi fossero le chitarre dell'orchestra di Morandi.
Composti, silenti e imperturbabili (se non educatamente impietriti) Mattarella e Meloni hanno assistito alla metamorfosi di La Russa che, per essere più alla mano (ma era un giorno di celebrazione, e il prete, anche il più confidenziale, non diserta l'altare), ha rinunciato al suo scranno, mentre quattro illustri storici, dai banchi della presidenza, hanno recitato i loro interventi, senza slanci, stando seduti.
Era tutto autentico. E soprattutto l'umano ed emozionato Morandi che, a partire da Gianfranco Fini e dalla Ronzulli, coordinati nel movimento delle mani sui ritmi musicali, e da Renzi e Casini, ha ottenuto applausi convinti per una canzone poco confacente al luogo e alla circostanza: «Fatti mandare dalla mamma». A un certo punto sembrava una festa di compleanno (il mio, che sono nato l'8 maggio). Alla fine, il Senato è stato per più di un'ora come Sanremo.
Ed è vero che Mattarella a Sanremo è stato, ma forse non si aspettava di ritrovarselo al Senato. Pregevole, certamente, il concerto ma forse non adatto il luogo, anche se si poteva pensare che, vista la somiglianza, a interpretare Morandi fosse Maurizio Lupi.
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