Un maoista di provincia che mette paura

di Ma Renzi sa cosa dice? Ieri, da presidente del Consiglio, non negli stravaccamenti post-prandiali, ma in un colloquio solenne, ha descritto la sua ascesa a Palazzo Chigi così: «La rivoluzione non è un pranzo di gala, no?». In quel no, c'è la strizzata d'occhi, l'ammiccamento ai compagni, il sorrisetto. Ma lì dentro, in quella frase è nascosta la giustificazione da parte di Mao Tse-Tung dell'assassinio di milioni e milioni di persone. Ovvio che non ci pensava, il premier, ma è proprio questo automatismo culturale che spaventa: l'incapacità di vedere le profondità della storia, compiacendosi invece di specchiarsi come Narciso nelle frasi rotonde di statisti magari assassini, ma con i ritratti appesi a Pechino.

Ingigantiamo un microbo? Ah sì, in fondo sono milioni di microbi gialli, non è vero? Eppure, non si gioca alla battuta politica, scherzando senza rispetto e senza coscienza su costellazioni infinite di cadaveri, erigendosi a Mao Tse-Tung che cavalca la tigre della rivoluzione e sbaraglia il nemico. Non è questione di buon gusto o di inopportunità, ma di idea della vita e della storia. Quando certe parole hanno giustificato stragi da venti milioni di disgraziati gettati su stufe roventi o annegati su chiatte con i piedi legati a massi, non è lecito svelenire l'orrore per compiacersi della propria abilità di battutista. Non si fa, proprio no. Come non si gioca appropriandosi delle citazioni di Hitler così non si deve fare con quelle di Mao, anche se la Cina investe dalle parti di Firenze.

Andiamo al contesto.

L'intervista di Matteo Renzi ad Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera (di questo si sta parlando qui) è un autoritratto perfetto. Il premier dipinge il mondo da «ragazzo di provincia», come definisce se stesso in modo civettuolo. Ecco, Renzi è civettuolo. E questo è il problema. Sfiora qualsiasi dramma della nostra epoca pattinando come se fosse la fatina Trilly sul lago di vetro gelato, con piglio allegro e piripicchio. I suoi occhi guardano i propri piedi agili e infiocchettati e si piace; non gli viene in mente proprio di guardare più in fondo: vedrebbe sotto la lastra di ghiaccio la tragedia, non riconosce i morti. È tutta un'avventura di farfalle, la vita, per il nostro presidente del Consiglio. Almeno è quello che egli comunica. Per vincere la paura dice frasi da paura.

E c'è quella frase che svela una superficialità morale di Renzi di cui riesce ad andare orgoglioso, e personalmente mi spiace perché non è sempre stato così, ha perso qualcosa per strada negli ultimi anni.

Chiede il giornalista: «Nei mesi scorsi sono uscite sue intercettazioni che mostravano uno stile di una certa spavalderia, ai limiti della ribalderia». Risposta: «La rivoluzione non è un pranzo di gala, no?».

Cazzullo si riferiva nella domanda alla cacciata di Letta da Palazzo Chigi. A telefonate e conversazioni di Renzi e di suoi intimi, dove si sorprendono discorsi e ammiccamenti da konspiracija antizarista. Renzi non nega e non spiega. Risponde con una frase liquidatoria, lui non pettina le bambole, il ragazzo ama farsi passare per monello a cui le si perdona tutte, perché è il «giovanotto di provincia dagli occhi ardenti»: «La rivoluzione non è un pranzo di gala, no?». Certo, abile, interessante da gettare in faccia ai suoi ribelli del Pd: vi sorpasso a sinistra. È un pensiero del Libretto rosso, e l'integrale dice così: “La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un'opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un'insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un'altra».

È un atto di violenza, insomma. Traduzione: prendere il potere implica atti di violenza, è inevitabile. Sta dicendo che non ha nulla da rimproverarsi. La lotta politica è spietata. Anche il golpe è compreso?

In fondo è una confessione.

Ma la smetta di fare l'allegro giovanotto provinciale dagli occhi ardenti, il fatino che danza vestito da Mao Tse-Tung. La prossima volta citi più opportunamente Machiavelli: «Un Principe deve possedere a un tempo la natura della bestia e quella dell'uomo». Per ora siamo alla bestia.

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