Alla prima riunione del Consiglio europeo, nella nuova legislatura, Giorgia Meloni si presenta con la voce ancora arrochita dai postumi del comizio finale ad Atreju, ma «con l'orgoglio» della «missione compiuta».
L'incarico ottenuto per Raffaele Fitto, dice a Montecitorio aprendo il consueto dibattito parlamentare, che precede ogni summit dei capi di governo Ue, ha «rotto il tetto di cristallo» e il «cordone sanitario contro i Conservatori» voluto dalla sinistra, ed è «adeguato al peso della nostra nazione in Europa: un risultato che conferma la centralità dell'Italia». Il percorso non è stato «immune da polemiche politiche anche aspre», nota, rinfacciando innanzitutto al Pd di aver lavorato per «indebolire» l'Italia e ostacolare la «nomina di un italiano come vicepresidente della Commissione», con un «portafogli di deleghe da 1000 miliardi di euro».
Ad avvantaggiare l'Italia, per la premier (le cui comunicazioni verranno poi approvate con 193 sì e 118 no), è «la nostra straordinaria condizione di stabilità» politica rispetto «alle turbolenze» che vivono molti paesi Ue. Una «novità» rispetto al passato, e un «capitale importante che dobbiamo saper mettere a frutto», sottolinea Meloni, ringraziando la maggioranza per «la compattezza» fin qui dimostrata. Mentre la presidente del Consiglio svolge le sue comunicazioni, però, i banchi della Lega sono semideserti, e il vicepremier Salvini non è al suo fianco. Le opposizioni ironizzano sull'assenza di un pezzo di maggioranza (solo a metà seduta i deputati del Carroccio riempiranno i vuoti) e mettere in dubbio la «stabilità» del centrodestra e il ruolo internazionale del governo: «Nessuno si è accorto della presidenza italiana del G7», lamenta il dem Giuseppe Provenzano.
La replica di Meloni è sarcastica: «Così non si insulta me ma tutti coloro, dai diplomatici alle forze dell'ordine al Papa, che hanno lavorato per il successo del G7 mentre voi eravate lì a fare le consuete macumbe. Che però non hanno funzionato: vi consiglio di fare un corso di riti voodoo». Poi l'accusa: «Per voi la fazione viene sempre prima della nazione».
Alla demagogia «pacifista» e anti-armi agitata da sinistra, M5s in testa (l'invasione dell'Ucraina, nella singolare teoria sostenuta in aula da Giuseppe Conte, non è colpa della Russia: «È una guerra per procura della Nato»), Meloni ribatte sottolineando come «sia stato proprio un signore di nome Conte a impegnarsi» con la Nato per l'aumento delle spese militari: «Bizzarro cambiare opinione a seconda che si sia a Palazzo Chigi o no». Senza contare che a lamentarsi «sono gli stessi che poi accusano gli Usa di ingerenze: ma se si delega la propria difesa ad altri, poi è inevitabile pagare un prezzo». Quindi sì agli investimenti in difesa, e nessun passo indietro sull'appoggio all'Ucraina: «L'unico modo per ottenere una pace giusta è non abbandonarla». Come ribadirà anche a Zelensky, nell'incontro in sede Nato di domani sera a Bruxelles. Al Pd che la mette in guardia sul nuovo presidente Usa: «Cerchiamo di essere seri: Trump non è un nostro nemico», anche se va contrastato il protezionismo economico.
Il liberale Luigi Marattin la invita a seguire l'esempio di Javier Milei, che per Meloni è «un'interessantissima novità», e il «profilo giusto per l'Argentina», ma non per questo «è un modello replicabile da noi».
A Elly Schlein che contesta «il clamoroso fallimento» del centro per i migranti in Albania, «deserto», la premier replica che invece l'iniziativa «deve andare avanti», perché quello degli hub extraeuropei (cui ha aperto anche Ursula von der Leyen) può essere il mezzo più efficace per stoppare «la mafia dei trafficanti» di migranti.
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