Minacce e spari nel cuore della capitale. La rivolta soffocata delle donne e dei "prof"

Il gruppo di coraggiosi manifestanti attaccato da talebani col kalashnikov

Minacce e spari nel cuore della capitale. La rivolta soffocata delle donne e dei "prof"

«La gente di Kabul non si fida di noi, ma poco a poco cambieranno idea, apprezzeranno la nostra fede e la nostra pazienza. Dobbiamo solo avere il tempo di farglielo capire». Kari Mohammed Vazil, 33enne veterano delle milizie talebane e comandante dell'Amniaty Mili, la forza di sicurezza responsabile dell'ordine a Kabul, ce l'aveva spiegato solo 40 minuti prima. Ed era pure convinto. Ora lui e i suoi imbracciano i kalashnikov, minacciano di morte la gente, sparano all'impazzata sopra le teste dei dimostranti.

Siamo nel cuore di Kabul nel mezzo di un'Ankara Street diventata una trappola per topi. Davanti a noi le palizzate di cemento armato che difendono il palazzo presidenziale chiudono ogni via di fuga. Ai loro piedi una ventina di talebani svuotano i caricatori sopra le teste di duecento dimostranti inermi e di una ventina di giornalisti. Fuggire è impossibile. Davanti e dietro torme di talebani infuriati. In mezzo è il caos e il terrore. Fino a un minuto prima Karim e i suoi avevano fatto di tutto per trattenersi. Incolonnati ai lati della manifestazione s'erano comportati come zelanti controllori. Indifferenti a tutto, avevano fatto buon viso a cattivo gioco anche quando quei 300 coraggiosi avevano inneggiato al Panshir e al defunto comandante Massoud. «Lunga vita alla resistenza, via i talebani, via i pakistani che li aiutano», urla Roxanne. «I talebani e il Pakistan - spiega Cherin, un insegnante 32enne, vogliono farvi credere che ci tollerano e ci rispettano. Ma per loro noi donne siamo solo rifiuti. Ci vogliono far scomparire, vogliono cancellarci dalla faccia del loro emirato». L'ascoltiamo, stupiti dal temerario ardore che animano lei e gli altri protagonisti di questo colorito e fragoroso serpentone. Ora quel nugolo vociante ondeggia tra barbuti in mimetica e mani sempre più nervose, sempre più pronte a correre al kalashnikov. «Vedi questo è il coraggio del vero popolo afghano. Gli Stati Uniti sono venuti qui, ci hanno illuso con la democrazia e i loro dollari, ma poi ci hanno abbandonato nelle mani di questi analfabeti. Noi però non molliamo. Siamo gli afghani poveri, ma coraggiosi. Non piegheremo la testa davanti a questi ignoranti. Siamo pronti a morire per la nostra patria», urla Abdul, professore cinquantenne. Sono le ultime parole prima del terrore. In Ankara Street i kalashnikov si alzano sul serio, i proiettili volano ovunque, il panico dilaga. Donne e ragazze sono a terra, avviluppate in un informe sciame umano. Si spingono le une con le altre e le loro vesti colorate formano un grottesco mosaico semovente. Sospinti dalla folla impaurita rotoliamo in quel bizzarro patchwork di tessuto e terrore, ne veniamo inghiottiti «Moriremo tutti», grida una. «Se non ve ne andate vi ammazziamo tutti», gli fa eco un talebano. È ad un passo da noi. Con una mano alza il kalashnikov, con l'altra cerca di colpirci con uno sfollagente di metallo flessibile. Uno degli organizzatori della dimostrazione, voce e mente degli slogan lanciati fino a un attimo prima dagli altoparlanti di un furgone, è a terra in mezzo alla strada. Un calcio di kalashnikov nella schiena lo fa sussultare, un calcio in bocca ne spegne l'ultima protesta. Per un attimo l'inferno sembra cessato. D'un colpo tutto riprende. Ora il bersaglio sono le finestre dello Star Hotel dietro le quali alcuni giornalisti stanno riprendendo. «Siete occidentali copritevi la faccia o vi prendono», ci urla una ragazza. Non fa in tempo a dirlo.

Gli uomini dell'Amiati ci afferrano, tentano di trascinarci via. Gli afghani ci strappano letteralmente dalle sue mani. Corriamo via. La salvezza è lì dietro il portone di quell'hotel preso di mira dagli afghani. Ma solo uno di noi ci arriva.

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