Per settimane Mario Draghi ci è stato presentato come il salvatore della Patria: l'unico italiano in grado di essere benaccetto nei salotti buoni internazionali (quelli che contano) e che ci è stato quindi venduto come l'ultima risorsa a disposizione di un Paese pieno di debiti e incapace di uscire da un declino che dura da troppi anni. Eppure sul desolato campo di battaglia di quest'ultima consultazione non troviamo soltanto le aspirazioni frustrate di quanti sognavano di mettere piede alla Camera o al Senato. Gli elettori italiani si sono espressi anche e soprattutto contro la cosiddetta «Agenda Draghi», ossia contro un progetto di modernizzazione dall'alto di taglio tecnocratico. Sotto molti punti di vista, è proprio quell'agenda a uscire con le ossa rotte. Come tutti hanno dovuto ammettere, il vero successo è stato di Giorgia Meloni, proprio perché è rimasta fuori dal governo e quindi ha fatto opposizione a Draghi, Speranza e gli altri. Fratelli d'Italia ha vinto perché ha tratto vantaggio soprattutto a scapito di un Salvini troppo prigioniero delle logiche di Giancarlo Giorgetti e dei governatori regionali del fatto di essersi contrapposta a molte delle scelte della maggioranza di larghe intese. Se la Meloni ha ragioni per sorridere, chi deve leccarsi le ferite è proprio chi più ha investito sul progetto di una modernizzazione volta ad accrescere sempre più il potere degli eurocrati di Bruxelles: in primo luogo il Pd di Enrico Letta (che ha subito una sonora sconfitta nonostante l'appoggio di larga parte dei media, delle grandi imprese e degli intellettuali), l'alleanza tra Carlo Calenda e Matteo Renzi, gli ultra-draghiani di +Europa, che addirittura non arrivano al 3% e quindi non hanno eletti nel proporzionale. Perfino nella sinistra colpisce come abbia retto più di quanto non si pensasse ciò che resta del Movimento Cinquestelle, forse anche perché Giuseppe Conte ha giocato oltre che sul reddito di cittadinanza su un'ipotesi di politica estera non del tutto schiacciata sulle volontà dell'amministrazione Biden. I voti sembrano voler archiviare l'esperienza degli ultimi due anni, tanto più che nulla è maggiormente contro l'Agenda Draghi del sovranismo della Meloni, che immagina un'Europa dei popoli e quindi propugna uno schema confederale, così che nessun modo sacrifichi le individualità nazionali sull'altare di un progetto di unificazione continentale. Si ha la netta sensazione che le priorità del tipico italiano medio che vota sempre contro lo schieramento progressista (oggi sempre meno borghese e sempre più proletarizzato) non abbia nulla a che fare con il Pnrr, con la transizione verde, con la costruzione degli Stati Uniti d'Europa e con un'idea di cambiamento da realizzarsi «costi quel che costi».
Con questo non si deve credere che l'Agenda Draghi sarà necessariamente accantonata, dato che non bastano i voti dei cittadini per governare: ora il pallino è in mano ad altri giocatori e quello che davvero succederà è impossibile da prevedere.
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