C'è qualcosa di patetico e, in certi momenti, perfino purtroppo di ridicolo nell'insistenza di tanti media soprattutto italiani nel far intendere al loro pubblico che un'intesa tra Israele e Hamas sia non solo possibile, ma addirittura imminente. L'insistenza nel voler credere, e anche far credere chi ti ascolta o ti legge, in ciò che appare giusto o anche solo desiderabile è però, alla fine, controproducente: a forza di veder smentito dai fatti ciò che viene continuamente annunciato come la Buona Novella della pace in Terrasanta, anche i telespettatori e i lettori meglio disposti mangiano - come usava dire un tempo - la foglia.
A Gaza non ci sarà nessuna pace, per la semplice ragione che, in realtà, né i vertici di Hamas né il premier israeliano Benjamin Netanyahu la vogliono. O, per meglio dire, ciascuno di loro ha un'idea di quella pace perfettamente incompatibile con quella dell'altra parte.
Ancora ieri, la delegazione di Hamas se n'è venuta via dal Cairo, dopo infruttuosi colloqui con i mediatori egiziani, americani e qatarioti, ed è partita per il Qatar «per proseguire i colloqui per una tregua a Gaza». Ismail Haniyeh, il capo del movimento integralista islamico che da quasi vent'anni spadroneggia nella Striscia che ha trasformato in una casamatta irta di missili, traforata da tunnel e zeppa di armi fornite dagli iraniani e usate lo scorso 7 ottobre per far strage di inermi «nemici sionisti», ha ribadito che Hamas «è ansioso di raggiungere un cessate il fuoco globale che porrà fine all'aggressione di Israele, garantirà il ritiro del suo esercito da Gaza e garantirà il rilascio di ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi». Un libro di favole, di cui chi come Haniyeh legge le pagine a uso dei media conosce perfettamente l'impraticabilità.
Perché Hamas sa benissimo che esiste un ostacolo invalicabile per il raggiungimento di un accordo di tregua con Israele: il concetto di fine del conflitto a Gaza. Hamas, militarmente alle corde e asserragliato nel ridotto di Rafah, pretende che l'intesa per una tregua con scambio di prigionieri sia connessa all'impegno israeliano al ritiro una volta per tutte dalla Striscia. Mentre Israele non ha alcuna intenzione di concedere nulla del genere: per lo Stato ebraico una tregua è solo una tregua, al termine della quale la guerra riprenderà fino alla sconfitta militare di Hamas. Lo ha ribadito chiaramente ieri il ministro della Difesa Yoav Gallant: «Abbiamo individuato segnali allarmanti che Hamas non intende stipulare alcun accordo con noi, che abbiamo concesso ai negoziati un certo periodo di tempo ma che manteniamo obiettivi chiari in questa guerra: l'eliminazione di Hamas e il rilascio degli ostaggi. E dunque, un'operazione a Rafah e nell'intera Striscia di Gaza avverrà in un futuro molto prossimo».
Naturalmente, Haniyeh e Netanyahu si rinfacciano la responsabilità di un mancato accordo. In realtà, semplicemente, il primo non può rilasciare gli ostaggi israeliani che sono una preziosa arma di ricatto, mentre il secondo deve continuare la guerra per sopravvivere politicamente. Quanto agli attori esterni, né Iran né Russia né Cina hanno interesse alla pace a Gaza.
Gli unici cui questa converrebbe sono gli americani, ma non riescono a imporla nonostante lo strenuo impegno del segretario di Stato Blinken. (Anche ai civili di Gaza converrebbe la pace, ma senza più Hamas al potere: questo, però, pare quasi una bestemmia farlo presente)
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