Dice Antonio Ingroia: «Giovanni Brusca mi disse che il dottor Pignatone era in rapporti con uomini di mafia di peso, che era disponibile verso Cosa Nostra. Disse che lo aveva saputo da Totò Riina. Trasmettemmo i verbali alla procura di Caltanissetta dove vennero archiviati».
Se c'erano ancora dei dubbi sulla virulenza dell'uragano che sta scuotendo la magistratura intorno al «caso Pignatone», a fugarli arrivano le dichiarazioni di un ex pubblico ministero che è stato anche lui un'icona dell'Antimafia, fino allo sfortunato sbarco in politica. Ingroia era in Procura a Palermo, era con Paolo Borsellino a Marsala. Conosce bene sia Pignatone che il suo vice Gioacchino Natoli, magistrati di punta dell'antimafia a Palermo. E che entrambi siano sotto inchiesta per favoreggiamento alla mafia sembra non stupirlo affatto. Soprattutto per quanto riguarda Pignatone, «che come magistrato era l'antitesi di Giovanni Falcone, che lo osteggiò in ogni modo, e che paradossalmente è stato raccontato per decenni dai giornaloni come l'erede di Falcone».
Pignatone - che da Palermo è approdato prima a Reggio Calabria e poi a Roma, e che oggi presiede il tribunale del Vaticano - è indagato per avere aiutato Cosa Nostra e il gruppo Ferruzzi, quello di Raul Gardini, a insabbiare l'indagine dei carabinieri del Ros su «Mafia Appalti», quella che svelava i rapporti dei clan corleonesi con la grande azienda del nord. Fu quella inchiesta il movente della morte di Paolo Borsellino, che avrebbe voluto portarla avanti. E a voler affossare l'inchiesta a tutti costi fu il procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, di cui nel 1992 Pignatone era il collaboratore più fidato.
Non fu, dice Ingroia, un semplice errore di valutazione. Il problema è che Giuseppe Pignatone di quella indagine non avrebbe dovuto occuparsi perché toccava direttamente la sua famiglia. «L'indagine - spiega Ingroia - riguardava imprenditori mafiosi che avevano avuto a che fare direttamente con suo padre. Il padre di Pignatone era un ras della politica siciliana, un uomo vicino a Salvo Lima e quindi alla corrente andreottiana. Nelle carte che mandammo senza risultato a Caltanissetta c'era anche la storia degli appartamenti che i costruttori mafiosi oggetto dell'inchiesta Mafia-Appalti avevano venduto a prezzi ridottissimi, sostanzialmente regalati, alla famiglia Pignatone. Tra questi c'era quello di cui godeva il dottor Pignatone e dove credo abiti tuttora».
È lì, in questo incredibile coacervo di interessi mafiosi, imprenditoriali e giudiziari che ora - con la fatica dei trent'anni trascorsi - i nuovi capi della procura di Caltanissetta cercano la spiegazione della strage di via d'Amelio. Ingroia, va ricordato, la spiegazione l'aveva cercata da tutt'altra parte, nella inesistente trattativa tra Stato e Mafia, indagando Silvio Berlusconi, Marcello Dell'Utri e i carabinieri del Ros. E nonostante le assoluzioni in massa dei suoi indagati non demorde, «può darsi che ci sia stata una convergenza di moventi» nell'uccisione di Borsellino. Ma che il vero segreto custodito da Falcone portasse verso Raul Gardini e non a Berlusconi, ora ne è certo anche lui: «Quando Giovanni disse adesso la mafia investe in Borsa" parlava del gruppo Ferruzzi».
Anche Ingroia trova sconcertante che Pignatone, convocato dai pm di Caltanissetta, si sia rifiutato di rispondere, e ancora più sconcertante che continui a presiedere il tribunale vaticano, «si sono dimessi ministri per molto meno». Ma è contento che la congiura del silenzio stia schiantandosi.
E che magari si trovi un perché ad altri misteri di quegli anni: «Quando arrivò una segnalazione che sarebbero stati uccisi Antonio Di Pietro e Paolo Borsellino, Di Pietro venne prelevato dai servizi e portato al sicuro in Costarica. Borsellino invece non venne nemmeno avvisato, e lo lasciarono a Palermo in pasto ai suoi carnefici. Perché?».
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