Mandare o non mandare le armi in Ucraina, questo è il dilemma. Sembra una questione etica, di valori da incarnare, e invece riguarda solo se e quale ruolo vogliamo avere in tragedia.
Mandare più armi e più impegnative, avendo superato il contorcimento su difensive/offensive, rappresenta un costo per l'Italia, non tanto economico quanto per la sicurezza. Le armi servono a combattere, come la benzina ad alimentare il fuoco. Più forte e a lungo il fuoco brucia, più è probabile che gli altri, i russi, impieghino altra benzina affinché a scottarsi siano gli ucraini e non loro. Poiché in fondo alla santabarbara russa ci sono le armi nucleari, la preoccupazione legittima è di superarli con le armi convenzionali, ma non fino al punto di metterli nelle condizioni di raschiare il barile e ricorrere alle armi finali. In sintesi, sappiamo in cuor nostro che puntiamo a sconfiggerli sperando che non succeda, che si trovi prima dell'arrivo una formula che salvi capra e cavoli. Dentro questo busillis, ce n'è un altro tutto italico. Comunque vada il conflitto, vediamo di non farci trovare proprio noi sulla linea di tiro. Detto in termini magari viscerali, se aiuto ha da essere, non potremmo fornire i vettovagliamenti al posto dei mezzi Lince? Sai, la cucina italiana
Insomma, armare gli ucraini ci costa e nemmeno poco. Allora la domanda dovrebbe essere: se accettassimo, cosa dovremmo ottenere in cambio? Impostare le cose sul piano mercantile, do ut des, è spesso la via semplice per disincagliarsi. Se aumentano i rischi, allora dobbiamo puntare a tenerli sotto controllo. Negli affari se uno investe il 20% in una società pretende un posto in consiglio d'amministrazione. Allo stesso modo, se ci ingaggiamo sul terreno dovremmo ottenere più voce nelle riunioni operative e nella comunicazione, il cui peso non è marginale. Se le armi le mettiamo noi, il grilletto non lo premono a Washington.
A due mesi dall'invasione è ormai chiaro che nelle retrovie ucraine ci sono due blocchi, uno anglo-americano e uno europeo. Il primo non confina col problema e non ne subisce l'impatto economico poiché non dipende dall'energia russa, però sta manovrando da anni, fin dall'opposizione al Nordstream2 che nessuno ha ancora ben motivato. Invece a Bruxelles erano troppo presi da questioni importanti, tipo la gender equality, il clima planetario o lo stress-da-ora-legale, per accorgersi che qualcosa non andava laggiù a est. Svegliati dai cannoni, si sono subito occupati di rifare i gironi delle coppe europee, mentre i leader nazionali andavano in ordine sparso come al solito. Il francese ha speso tutto per la rielezione, senza cavare un ragno dal buco, e ora non ha più carte. Il tedesco ha impiegato mesi a capire che il pollo era lui con la sua ostpolitik, ormai bruciata sia a Mosca che a Pechino. Lo spazio per entrare nella stanza dei bottoni ci sta tutto, come pure il carisma internazionale del premier.
Ma noi non la vediamo così.
Più che unirci sul fare, ecco le armi ma il bottone lo premo io, ci dividiamo sulle categorie dello spirito, dell'essere: orgoglio o compassione? Sostenere la resistenza o far finire l'agonia della gente? Dipendesse da noi, sapremmo cosa fare, da quei bravi sportivi da spalti e non da campo che siamo. È che gli ucraini complicano le cose, ammettiamolo.
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