Ora parola all'assassino: Mancini interrogato oggi

Il gip deve decidere se convalidare il suo arresto

Andrea Acquarone

Al quinto giorno di carcere, oggi spetta a lui, ad Amedeo Mancini il diritto di parola. Dopo le passerelle di Stato, tra condoglianze, censure, sfilate di centri sociali e sentenze già scritte, finalmente il contadino omicida incontrerà il gip che deve decidere del suo futuro. Almeno quello immediato. L'ultrà della Fermana, appassionato di calcio, boxe e cavalli, potrà raccontare la sua verità. Ripetere a verbale come siano andate le cose quel tragico pomeriggio di martedì scorso.

Fermo, nella sua apparente quiete collinare, tra dolci declivi illuminati da un sole marino, è una città scossa. Addolorata, ma anche divisa e arrabbiata. Come dice il sindaco Paolo Calcinaro, «una città sovraesposta, stritolata dal circo mediatico».

Ieri, Chinyery, disperata, ha dato l'ultimo addio al suo Emmanuel, l'uomo col quale dopo aver attraversato la Libia, si era imbarcata su una carretta del mare per sfuggire alle stragi di Boko Haram, in Nigeria. L'uomo che aveva risposato in Italia ma che gli è stato portato via da un pugno mortale in una squallida lite da strada. Entrambi da oltre otto mesi vivevano nel Seminario arcivescovile, ospiti con altri 124 profughi della comunità di Capodarco gestita da don Vinicio Albanesi, il potente presbitero che divide le anime dei suoi concittadini. E non solo le loro. Nei mesi scorsi quattro chiese della «sua» diocesi sono state prese di mira da ignoti attentatori a colpi di bombe artigianali. «Segno dell'intolleranza e del clima di odio xenofobo che si respira in città», aveva subito denunciato lui. Così come ha immediatamente bollato come un delitto razzista quello di Emmanuel Chidi Nambdi, 36 anni, il «suo rifugiato» morto dopo il terribile cazzotto ricevuto da Mancini.

In realtà l'inchiesta, così come ha in parte già fatto il risultato dell'autopsia, potrebbe ridefinire i contorni di questa tragedia. Tratteggiando un quadro diverso da quello troppo frettolosamente disegnato da politici di professione e sobillatori vari per vocazione.

Certo la nomea del «bifolco» assassino- considerato un attaccabrighe con simpatie destroidi (qualcuno ha persino scritto con ridicolo disappunto che recentemente l'uomo fosse andato a un comizio di Salvini)- non giova a placare la gogna. Ma ciò che non torna sono le opposte versioni dell'accaduto. Quella sua, che sostiene di aver sì insultato la coppia di nigeriani, ma solo perché stavano aggirandosi in modo sospetto attorno a delle auto e di essere quindi stato aggredito; quella di Chinyery, che ripete di essere stata vittima di offese razziste. E di essere stata soltanto difesa dal proprio compagno. Più di un testimone, avrebbe confermato, invece, il racconto del contadino. E qualcuno avrebbe aggiunto un particolare, che se dimostrato, potrebbe rivelarsi decisivo. Come mai la donna non ha chiamato la polizia per chiedere aiuto? E anzi, come sostiene almeno uno dei presenti alla rissa, Chinyery avrebbe, in realtà, fatto sì una telefonata, ma per chiedere l'intervento di altri connazionali a dar manforte: una sorta di missione punitiva giunta però contemporaneamente all'arrivo di vigili e polizia.

Una decina di neri eclissatisi prima di finire nei guai.

Difficile però che Mancini possa ottenere almeno i domiciliari. La Procura, nel provvedimento di fermo, avrebbe già evidenziato la sua «pericolosità sociale» e il «pericolo di fuga».

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