Qualcuno in Parlamento maligna che in calce alla riforma della giustizia, di fianco al Guardasigilli Carlo Nordio ma scritta con l'inchiostro simpatico, ci sia la firma di Luca Palamara.
La separazione delle carriere votata l'altro giorno da Montecitorio è solo il primo sì alla riforma (servono due passaggi alla Camera e altrettanti al Senato), serviranno anni perché si metta in pratica e soprattutto servirà una nuova generazione di magistrati giudicanti a incarnare la figura di giudice «neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti», come scriveva inascoltato Giovanni Falcone alla vigilia dell'approvazione della riforma del codice penale del 1989, parlando di pm e giudici come due figure «strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera». L'ex leader Anm che ha raccontato in due libri scritti con Alessandro Sallusti le malefatte dei suoi colleghi (alcune ancora impunite...) sembra restio a rispondere, poi è un fiume in piena.
Palamara, dicono che la riforma della giustizia sia colpa «sua», delle verità indicibili che lei ha raccontato nei libri Il Sistema e Lobby&Logge. Condivide questa analisi?
«A distanza di anni non posso che ribadire che il senso del mio racconto fatto a Sallusti nel libro Il sistema aveva come unica finalità quella di porre al centro del dibattito politico la necessità di un percorso riformatore sulla organizzazione politica che negli anni si è data la magistratura».
C'è chi dice che la politica voglia punire i giudici...
«Rifuggo da qualunque condivisione di intenti punitivi nei confronti dei giudici, perché la magistratura è e rimane indispensabile nella vita democratica del Paese e al suo interno vanta ancora oggi tante eccellenze».
Lei era contrario alle carriere separate. Oggi?
«È vero, nella mia trascorsa veste di magistrato e di presidente dell'Anm ho, più volte, espresso la ferma contrarietà alla separazione delle carriere, privilegiando l'idea che pm e giudice dovessero avere la stessa formazione e cultura della giurisdizione».
Perché ha cambiato idea?
«Diciamo che nel tempo ho cambiato idea per un duplice ordine di ragioni. La prima perché nei fatti le carriere tra pubblico ministero e giudice sono già separate».
In che senso?
«Oggi i passaggi da una funzione all'altra sono sempre più rari, complice la progressione in carriera che impone una spiccata specializzazione delle funzioni stesse».
Tradotto?
«Tradotto, come emerge dai dati statistici del Csm, un giudice non diventerà mai procuratore della Repubblica di un importante ufficio giudiziario. Da questo punto di vista, il discorso fatto oggi da Marco Travaglio a proposito di Paolo Borsellino non regge, perché già a partire dal 2007, governo Prodi, le carriere di fatto sono separate».
Qual è l'altro motivo?
«In secondo luogo perché quanto alla cultura della giurisdizione, tanti processi hanno evidenziato come sono sempre più rari i casi in cui il pubblico ministero sia portato a cercare prove favorevoli all'imputato. Ciò soprattutto quando nello svolgimento delle indagini preliminari, all'accertamento della verità si sovrappone un appiattimento del pubblico ministero sulle informative della polizia giudiziaria sovente trasfuse, nella loro totalità, dapprima nelle richieste di misura cautelare, poi nelle ordinanze cautelari emesse dai giudici per le indagini preliminari e da ultimo nelle sentenze emesse dei giudici, compresi quelli della impugnazione».
È concreto il rischio che così i pm finiranno sotto il giogo della politica?
«Le carriere separate non debbono mai mettere in discussione l'indipendenza del pubblico ministero dal potere politico anche se allo stesso tempo bisogna definitivamente mettere in soffitta l'idea del giudice politicizzato abiurato da una parte consistente della stessa magistratura. Ciò di cui il Paese ha bisogno è di realizzare compiutamente le condizioni necessarie a garantire la terzietà ed imparzialità di chi è chiamato a giudicare, ridisegnando il ruolo dell'accusa e così riportarla su un piano di parità rispetto a quella della difesa. Tutto questo è decisamente più coerente con il dettato costituzionale che proprio questi principi richiama nell'articolo 111 della nostra Costituzione».
Le reazioni delle correnti della magistratura sulla riforma sono sprezzanti, anche da parte delle toghe moderate di Magistratura indipendente. Cosa si aspetta che succeda?
«Il mio auspicio è che la riforma in questione non venga mai percepita in ottica punitiva nei confronti della magistratura. È una riforma che ovviamente meglio potranno apprezzare i giovani che si accingono ad entrare in magistratura».
C'è una nuova generazione di giudici su cui costruire la riforma...
«Loro più che mai devono essere protagonisti di una stagione di cambiamento che enfatizzando i valori ideali che devono
animare il lavoro del magistrato, metta definitivamente in soffitta quello politicizzato e contribuisca in questo modo a superare l'organizzazione politica dominata dal sistema dei ricorrenti che la magistratura si è data».
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