Orgoglio. Quanto pesa l'orgoglio? Qualcuno nel Pd comincia a chiederselo. I giorni passano e questo governo non trova una strada. È sempre lì, aggrappato a una maggioranza rachitica, che fa la conta di ipotetici «costruttori», che poi a guardarli da vicino non hanno nulla da costruire, perché di questi tempi in Parlamento il sentimento più diffuso è tirare a campare. Non solo lì. È la stessa aria che si respira nel governo e si riflette nel Paese. Non serve a scacciare la paura. La colpa sarà anche sua, di Giuseppe Conte, ma in questa storia il Pd è invischiato fino alle orecchie e non si può più fare finta di nulla. Il rischio è di affondare insieme a lui e perdere la faccia.
Ecco allora che la parola elezioni spunta sempre più di frequente nei discorsi del partitone. All'inizio come una provocazione o una minaccia, un modo per ricordare a «tutti gli uomini di buona volontà» che se non si trova una soluzione rapida e convincente a questa crisi neppure Mattarella può sbarrare la strada del voto. A quel punto tutti a casa e con il taglio dei parlamentari buona parte dei peones si ritroveranno a spasso. Le elezioni come un «ricordati che devi morire», come uno spettro da evocare, come un brutto scherzo della democrazia.
È quello che mette in chiaro il gran tessitore Goffredo Bettini, che sta facendo il possibile per salvare il Conte bis, ma sa che non si può galleggiare a oltranza con il mare mosso. «Le elezioni non sono un colpo di Stato, ma l'ultima risorsa della democrazia. Se non ci sono più strade, allora si torna ai cittadini. Le elezioni non possono essere considerate un colpo di Stato. Una sciagura sì, perché dobbiamo tentare di andare avanti fino all'ultimo, ma non senza decapitare il Pd».
Fino a che punto si può tergiversare per salvare Conte? La domanda a questo punto non è irrilevante. Lo stesso Zingaretti, segretario accomodante, comincia a pensare che qui si rischia di fare la fine del topo. Finora il Pd ha assecondato i mal di pancia di tutti. Il risultato è che il partito che rivendica una vocazione naturale a governare non ha la forza per fare il famoso salto di qualità. Si nasconde. Si rinserra e insegue gli eventi. La crisi che sta scarnificando gli italiani vede il Pd trascinato come un sacco di patate dal naufragio grillino e dal duello rusticano tra Conte e Renzi. È il vaso di coccio. È Don Abbondio.
Tommaso Nannicini lo ricorda in un'intervista su Avvenire. «Torniamo a fare politica. Lo dico innanzitutto al Pd. Non possiamo diventare la sesta stella del M5S. È il Paese che non ce lo perdonerebbe».
Se questa è la situazione allora tanto vale giocarsi il tutto per tutto e ritrovare un minimo di orgoglio. Meglio affrontare gli elettori che crepare per vigliaccheria. Meglio subito, perché più si va avanti e più il costo vivo della pandemia si fa sentire, come acido sulla pelle di troppa, tanta gente. A marzo, per esempio, termina il blocco dei licenziamenti. Si può rinviare di nuovo, certo. Ma fino a quando? Prima o poi il conto va pagato. Tanto vale saldarlo subito, perché gli interessi sono salati. Il guaio è che non tutti sono pronti a sfidare l'imponderabile. Franceschini, Guerini, Orlando sono convinti che ci sia ancora lo spazio per lavorare. Serve una quarta gamba e con un po' di pazienza spunterà. Il sogno è la «maggioranza Ursula», che si ispira al patto tra popolari e socialisti in Europa per eleggere Ursula Von der Leyen. Questo significa sperare in un coinvolgimento di Forza Italia. Non è che sia così facile. Non si può fare con Conte, che quindi andrebbe disarcionato, poi bisogna convincere i Cinque Stelle e infine trovare un premier che si accolli l'impresa.
I se sono tanti, ma non si sa mai. Che fare, d'altra parte? È su questo che nel Pd si stanno rompendo la testa e finora ovunque voltino lo sguardo vedono solo un vicolo cieco. Il tabù delle elezioni sta lì e qualche crepa si comincia a intravedere.
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