di Giordano Bruno Guerri
D a sempre i vari consorzi umani hanno voluto sintetizzare un'epoca o un potere, una situazione, un'impresa in un motto che ne costituisse l'essenza e il simbolo. I giapponesi, che sono notoriamente precisi, hanno addirittura istituzionalizzato questa pratica, come i papi: ogni imperatore, nel salire al trono, sceglie la parola che caratterizzerà la sua era. Il principe ereditario Naruhito, che il prossimo primo maggio prenderà il posto del padre Akihito, ha scelto «Reiwa», ovvero «Ordine e armonia». Gli auguriamo che così sia, anche se un menagramo ricorderebbe che la parola dell'imperatore Hirohito quello che nel 1941 permise l'attacco di Pearl Harbor e che nel 1945 si vide piovere sulla testa due bombe atomiche era «Showa», cioè «Pace e armonia». Nel tentativo di darsi una parola d'ordine che indichi la meta, anche stati e rivoluzioni si danno un motto, come gli Stati Uniti, che a quello ufficiale In God We Trust (Confidiamo in Dio) hanno affiancato un più realistico E pluribus unum (Da molti una cosa sola). Il più celebre è quello della Rivoluzione francese, Liberté, Fraternité, Egalité, che finì come è finita, a dimostrare che di buone intenzioni è lastricata la storia, oltre che l'inferno. Di buona intenzione era anche la Perestrojka di Gorbaciov, che da ricostruzione è diventata la costruzione di un'altra cosa, quella che il suo successore Putin non potrebbe definire esattamente Glasnost, trasparenza. L'Italia un motto non ce l'ha, per prassi ogni governo ha preferito darsene uno a seconda del momento e della necessità, dall'affascinante controsenso delle «convergenze parallele» di Moro alla promessa «Rivoluzione liberale» di Berlusconi. Proprio l'altro ieri il nostro gentile presidente del consiglio Giuseppe Conte sembra avere scelto le sue parole d'ordine - più dolci del brutale «Contratto di governo» usato da altri - invitando i ministri a essere «sobri e generosi». Bel motto, sì, ma a parte le difficoltà di attuarlo, si ha come l'impressione che il governo Conte durerà molto meno dell'era Nahurito.
Confidando poco nell'indicazione appena inaugurata da Conte, converrà dunque ripiegare su quella di Leo Longanesi, che richiama anche frequenti e recenti inciampi di ministri e capi del governo: «La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: Ho famiglia».@GBGuerri
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