In quella eterna telenovela che è la politica argentina, Cristina Fernàndez de Kirchner di anni sessantanove, da La Plata, è uno dei nomi più in alto in cartellone. La sua storia assomiglia molto a quella di Isabelita Peròn, che dapprima successe alla mitologica Evita nello stato di famiglia di Juan Domingo Peròn e poi prese il di lui posto alla Casa Rosada, sede della presidenza argentina, dopo la sua morte, nel 1974, prima che l'Argentina venisse ancora una volta inghiottita dal terrore di un golpe militare.
A Cristina va dato atto che non ha aspettato che il marito Néstor morisse per mettersi alla guida dell'Argentina al suo posto. Il cambio della guardia in famiglia e nella leadership, in puro familismo platense, avvenne nel 2007, quando Néstor alla fine del suo primo mandato da presidente rinunciò alla ricandidatura preferendo il ruolo di primer caballero della volitiva moglie. Che avrebbe retto il Paese fino al 2015, costretta al ritiro non certo dal fatto che l'economia durante i suoi otto anni di «regno» fosse crollata anche a causa delle sue politiche protezionistiche, fatte di nazionalizazioni selvagge e di inflazione alle stelle, e l'Argentina avesse conosciuto l'onta del fallimento; ma dalla trascurabile circostanza che a Buenos Aires dopo due mandati si è accompagnati alla porta della Casa Rosada. Onestà vuole che si ricordi che lei, Cristina, il tentativo di cambiare la costituzione per tentare un terzo mandato, come nelle tradizioni dei leader che vivono la democrazia come un fastidioso insetto da schiacciare, lo aveva fatto. Ma non essendo evidentemente troppo «dittatrice» il golpe bianco non le era riuscito. Si sarebbe consolata anni dopo, a partire dal 2019, accontentandosi di fare da vice al presidente Alberto Fernàndez, suo omonimo ma per una volta non parente. E Nestor, di grazia? Nel frattempo è morto anche lui, nel 2010, ad appena sessant'anni, lasciando alla vedova il peso di onorare da sola la dottrina del «kirchnerismo», che da quelle parti si entra nella storia politica soltanto diventando un sostantivo.
Cristina Kirchner è un personaggio molto controverso, disinvolto e contraddittorio. Gaffeuse convinta - degli italiani disse che erano «geneticamente mafiosi» al solo scopo di screditore l'avversario politico Mauricio Macri -, populista con la passione per l'alta moda - si narra che in pubblico non abbia mai indossato lo stesso outfit due volte - sembra non essere in grado di stare troppo a lungo lontana dai riflettori, fossero anche quelli che la illuminano di una luce sinistra. Pochi giorni fa un procuratore bonairense, tale Diego Luciani, nome da re e cognome da papa, ha chiesto di sbatterla in carcere per anni dodici perché secondo lui sarebbe stata, negli anni della presidenza, la burattinaia di una storiaccia di tangenti in Patagonia, storico feudo elettorale dei Kirchner. Un'accusa che non dovrebbe farla finire in carcere grazie all'immunità da senatrice ma potrebbe pesare sull'intenzione più volte manifestata di candidarsi di nuovo alla presidenza nelle elezioni del 2023; in molti la invocano stante la mancanza acclarata di leader carismatici di qualsivoglia colore politico.
Cristina, che prima di darsi alla politica per chiamata matrimoniale faceva l'avvocato, ha spesso frequentato le aule giudiziare non per lavoro.
Nel 2015 un altro procuratore, Alberto Nisman, l'aveva accusata di aver insabbiato le responsabilità dell'Iran in un attentato alla comunità ebraica argentina di Buenos Aires che aveva ucciso 85 persone. Finì con Nisman morto in circostanze misteriose e con le accuse archiviate. Un'altra pistola che ha fatto clic nella vita della señora Kirchner.
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