Due proiettili fatti in casa e un vuoto difficile da decifrare. Il corpo di Shinzo Abe è a terra, senza vita, con una pozza di sangue dove i giapponesi finiranno per specchiarsi, con l'angoscia di chi ha perfino paura a pensare, immaginarsi, un futuro. Non tutti lo amavano, come capita con figure ingombranti che segnano una lunga stagione politica, ma di sicuro il suo assassinio disorienta e arriva in un momento particolare, quando la richiesta più assillante è avere uno straccio di certezze. È una richiesta, economica, politica, sociale e culturale, diffusa in tutte le democrazie liberali. È la preghiera di questo tempo che ti sfinisce e non trova pace. Sembra quasi che il destino si diverta a scrivere una sceneggiatura furba, con colpi di scena più o meno inverosimili, con l'unica traccia di rendere più faticoso l'inevitabile resa dei conti con la Cina. Pechino come convitato di pietra, che apre i giochi con il Covid e promette di chiuderli un giorno con Taiwan. È così che in soli due giorni ti ritrovi con la caduta di Boris Johnson e la morte dell'uomo che non è più premier ma resta il padre nobile del governo conservatore nipponico. Il fato che destabilizza e confonde e lascia però tracce di contro, o per chi, sta giocando.
Shinzo Abe questa guerra di civiltà l'aveva sbirciata da almeno vent'anni, da quando perlomeno impegna il Giappone in alleanze strategiche che guardano lontano. È lui il perno dell'alleanza difensiva nel quadrante del Pacifico che sposta gli interessi statunitensi da Ovest a Est. È lì che si svelerà la partita decisiva sugli equilibri globali. È il senso di quella sorta di Nato che prende il nome di Quad, Quadrilateral security dialogue, che coinvolge Usa, Giappone, Australia e India. Abe si è speso più di tutti per anticipare la questione Taiwan. Pechino, diceva, va contenuta, perché il partito comunista è solo il nome che i cinesi danno a una nostalgia imperiale. Non si accontenteranno della potenza economica e finanziaria. Non accetteranno mai una visione del mondo che ha come cardine i valori «universali» europei o americani. Taiwan, isola dell'altra Cina, sta lì ogni giorno a ricordarglielo.
Abe è l'uomo della scelta di campo definitiva. Ora accade che in questa storia spunta il folle, ma è un folle che mira proprio dove doveva mirare, e già si porta dietro le ombre dell'ex marine Lee Harvey Oswald, l'assassino di J.F. Kennedy. Ma davvero si è costruito da solo l'arma? E non una qualsiasi, ma una macchina fotografica che funziona come una pistola? Un altro ex militare di marina con un movente senza senso, tanto che la prima cosa che si affretta a dire è «non l'ho fatto per motivi politici». Tutto questo alla vigilia del voto per il Senato. Certo, il Global Times, megafono in lingua inglese del Partito comunista cinese, si straccia le vesti per dire che la morte di Abe apre nuove tensioni con Pechino, perché questo delitto in realtà renderà più forte il partito Liberal Democratico (Jiminto) al governo. Saranno ancora più intense le pressioni per un «Indo-Pacifico libero e aperto», slogan della politica estera anti cinese.
Non c'è dubbio che i riflessi immediati potrebbero essere questi, ma il dramma di questo assassinio rende ancora più teso lo scontro tra i sostenitori della «Abeconomics» e la rabbia di chi considera il capitalismo il principio di tutti i mali e l'influenza occidentale qualcosa da ripudiare al più presto. La morte di Abe è un attentato alla democrazia. La Cina è innocente, ma anche in questo caso se ne gode i frutti.
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