"Questo delitto non è una vendetta È la prova che siamo intimamente cattivi"

Il sociologo: «È inquietante chi si schiera dalla parte dell'assassino del ragazzo»

"Questo delitto non è una vendetta È la prova che siamo intimamente cattivi"

Professor Francesco Alberoni, sui social monta la «solidarietà» per Fabio Di Lello, l'uomo della vendetta.

«In questo caso il termine giusto non è vendetta».

E allora qual è il termine giusto?

«Odio».

Che differenza c'è tra «vendetta» e «odio»?

«La differenza è nelle proporzioni».

In che senso «proporzioni»?

«La vendetta presuppone una sorta di equilibrio nella malvagità tra l'offesa ricevuta e il danno restituito. Del tipo: tu hai stuprato mia figlia e io ti ammazzo. L'odio, invece, si esplicita senza nessun bilanciamento: il 22enne Italo D'Elisa è stato infatti ammazzato per una sproporzionata forma di cattiveria: solo perché ritenuto colpevole di una tragedia che nessuno voleva. A cominciare da Italo».

Ma che tuttavia, pur senza dolo, ha provocato la morte della povera Roberta Smargiassi.

«Certo, ma è aberrante che il marito di Roberta per 6 mesi abbia, a freddo, elaborato un gesto malvagio così anomalo»

Eppure una fetta di opinione pubblica è schierata dalla parte del «vendicatore». Come lo spiega?

«Lo spiego con il senso di crudeltà, che è insita nel genere umano».

Dobbiamo quindi rassegnarci alla cattiveria?

«No. Per fortuna c'è anche in noi una parte buona».

Che però stenta a venire fuori.

Mai, professore, nei panni di Fabio Di Lello, avrebbe perdonato?

«Forse non avrei saputo, né voluto, farlo».

Ma lei si sta contraddicendo...

«Nessuna contraddizione: il perdono è possibile, ma solo di fronte al pentimento e al rimorso di chi ha provocato il male».

Come nella parabola del Figlio prodigo.

«Quando il padre corre incontro al figlio che si butta ai suoi piedi e dice: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Gesù perdona Maddalena perché ha fede, rimette i peccati quando il peccatore è pentito».

Due esempi «alti». Forse fin troppo per noi comuni mortali.

«Ha ragione. Ma perché mai dovrei perdonare un mafioso che ha sciolto nell'acido un bambino e, con questo gesto, ha rafforzato la sua potenza di capo inflessibile? Come fanno gli ebrei a perdonare Hitler che voleva sterminarli fino all' ultimo? Come fanno le famiglie degli ufficiali polacchi a perdonare Stalin che li ha fatti uccidere?».

Torniamo al punto cruciale: per perdonare occorre che chi ha compiuto il male si penta.

«Occorre che provi rimorso. Il rimorso è la nostra reazione primordiale, di esseri umani, all'aver contribuito, in qualsiasi modo, a fare del male a qualcun altro».

Sta dicendo che il rimorso di chi ha causato sofferenza non annulla il dolore di chi, quel dolore, l'ha patito.

Ma è come se rimorso e pentimenti ci accomunassero nello stesso pianto. E a questo punto il perdono da parte della vittima o dei suoi cari diventa una strada obbligata.

«Che, se non percorsa, rischia di farci deragliare lungo la via della dannazione eterna».

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