«Quello che è successo sabato con il decreto ricorda l'8 settembre. Per fortuna il governo non è ancora scappato a Brindisi». Non si nasconde la criticità del momento ma nemmeno rinuncia al gusto della battuta Alfonso Celotto, costituzionalista, ex capo di gabinetto del ministero della Salute e sagace narratore della burocrazia italiana nella saga di Ciro Amendola, direttore della Gazzetta ufficiale.
Celotto, ma il divieto di movimento contenuto nel decreto non in realtà è un po' lasco?
«In un decreto si inseriscono norme generali che poi verranno precisate con l'intervento del Viminale. Però è vero che espressioni come «comprovate esigenze» riconducono alla cura burocratica del virus»
E cos'è questa cura?
«La nostra è la burocrazia delle carte a posto: l'importante è che qualcun altro si prenda la responsabilità e che questo sia certificato dalle carte. Paradossalmente avere le carte a posto diventa più importante dell'interesse del cittadino e delle concrete azioni di cura».
Perché dice che è come l'8 settembre?
«La fuga di notizie sul decreto e la fuga delle persone dal Nord ricordano proprio il prevalere dell'interesse individuale sull'interesse generale che si verificò in occasione dell'armistizio».
Si poteva evitare?
«Si doveva evitare. C'era la possibilità di secretare la bozza. Ai tempi dello Statuto albertino, le norme che aumentavano le tasse si chiamavano decreti di catenaccio. Denominazione dovuta alla teoria dell'epoca, secondo cui se aumenti il grano o la farina, per evitare accaparramenti è necessario che quell'aumento sia imposto all'improvviso, come una porta che all'impensata si chiuda. E c'è l'esempio del prelievo sui conti correnti di Giuliano Amato nel 1992. L'ha fatto di notte, mica ha avvertito prima».
Il decreto trova fondamento nella Costituzione?
«Certo, all'articolo 16 che garantisce la libertà di movimento salvo limitazioni per motivi di sanità e sicurezza.
Casomai il problema è nel nuovo Titolo V: ci troviamo con troppi enti e poteri confliggenti. Il vecchio articolo 117 prevedeva la cosiddetta clausola di interesse nazionale, secondo cui potestà e competenze regionali dovevano comunque rispettare l'interesse nazionale».
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