La riforma delle banche tenuta nascosta a tutti. Ma non ai soliti furbetti

I presidenti delle popolari non sono stati informati dal governo. Eppure in Piazza Affari i titoli avevano già iniziato a correre

La riforma delle banche tenuta nascosta a tutti. Ma non ai soliti furbetti

Diciamolo subito: capire se poco meno di un anno fa sia stato solo il suo «fiuto» finanziario a convincere l'ingegner Carlo De Benedetti a investire, tramite la cassaforte Romed, su quattro banche popolari italiane è (e resterà) compito della Procura. C'è però un dato: sebbene il governatore di Bankitalia Ignazio Visco e la Bce di Mario Draghi premessero da tempo perché le Popolari cambiassero pelle e quindi Piazza Affari annusasse la necessità di una riforma, Renzi concepì il decreto per la loro trasformazione in spa in gran segreto.Tanto che quando, nel pomeriggio di venerdì 16 gennaio 2015 (a mercati chiusi), il premier annunciò ai vertici del Pd l'intenzione di procedere («Arriverà un provvedimento importante sul mondo del credito»), i vertici delle banche furono colti in contropiede. Così come si ricordano volti preoccupati nella lobby del settore: l'Associazione delle banche popolari all'epoca presieduta da Ettore Caselli (Bper).È il salotto che riunisce i signori delle coop: da Giovanni De Censi (Credito Valtellinese) a Gianni Zonin (fino poco fa padre-padrone della Popolare Vicenza), da Carlo Fratta Pasini (Banco Popolare) ad Andrea Moltrasio (Ubi Banca) o Piero Giarda (Bpm). Le telefonate con il segretario generale dell'Associazione, Giuseppe de Lucia Lumeno, si accavallarono fino a sera, ma nessuno sapeva che il governo procedesse manu militari. O non era noto che Renzi volesse la guerra lampo, accantonato l'idea di usare il disegno di legge Concorrenza e imbracciato l'arma definitiva: il decreto legge, che approda in consiglio dei ministri nel pomeriggio del 20 gennaio.Una situazione, quindi, diversa da tutte le altre volte che nei palazzi della politica romana si era tentato di riformare le Popolari. Perché l'azione non parte dall'emiciclo del Parlamento, dove le Popolari erano riuscite a frenare più di un progetto di riforma, facendo leva sui legami storici con la politica. Le stesse Popolari, davanti a un pressing della Vigilanza diventato insostenibile, stavano peraltro impostando una (timida) autoriforma, e chiesto ad alcuni «saggi» di cercare un compromesso. Nelle settimane successive l'Assopopolari abbozzò una resistenza, contestando l'«urgenza» dell'intervento e quindi il decreto. Ma il risultato non fu raggiunto. Il decreto, diventato legge in Parlamento, spazzerà via entro 18 mesi il voto capitario, che funziona come un freno a mano sulle quotazioni di Borsa perché in assemblea assegna la stessa forza a tutti soci, senza guardare se si tratti di un gigante del risparmio gestito che ha investito milioni di euro sul titolo, un piccolo risparmiatore o un dipendente-socio con solo un pugno di azioni. Per la Borsa, sapere che il cambiamento avrà tempi certi è centrale: dal 3 gennaio al 9 febbraio di quest'anno le banche popolari salgono con forza. Ubi mette a segno il 7,3%, Banco Popolare il 23%, Banca Etruria esplode (+56,6%). Senza contare che l'istituto di Arezzo solo poche settimane dopo sarebbe stato commissariato da Bankitalia (era l'11 febbraio) e quindi congelato fino al recente «salvataggio» con il Fondo di risoluzione che ha però azzerato le azioni. Sul dossier Etruria, a marzo si affacciò anche il finanziere «leopoldino» Davide Serra con il fondo Algebris. Gli scossoni delle Popolari in Borsa erano stati intercettati dalla Consob che, prima del 16 gennaio, rileva «attività potenzialmente anomale» da parte di «alcuni intermediari», pur in un contesto di quotazioni in calo.

Non solo l'Authority ipotizzava che le compravendite avessero fruttato una decina di milioni di plusvalenze. Ora la Procura cercherà di capire se qualcuno in quei giorni di gennaio ha fatto il furbo, cioè «insider trading».

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