Rigori a Londra, un centesimo a Tokyo. E gli inglesi rosicano di nuovo

Ancora una volta, basta un piccolo dettaglio e il complesso di superiorità britannico va a sbattere sul tricolore

Rigori a Londra, un centesimo a Tokyo. E gli inglesi rosicano di nuovo

Un rigore a Wembley. Un centesimo a Tokyo. Controllate pure i guanti di Donnarumma, verificate le scarpe di Jacobs, fotografate le gambe di Tortu, osservate bene le mani e le braccia degli altre tre staffettisti azzurri. Troverete l'oro, cari britannici, soltanto oro puro, vi lasciamo l'argento che ha il sapore della cicuta. Provate ancora a toglierlo dal collo, come i vostri screanzati sodali pallonari, scendete dal trono, l'impero è finito, Dio salva la regina ma ogni tanto pensa anche a noi e il suo vento ha soffiato prima nella notte di Wembley e poi nella sera di Tokyo, spingendo i ragazzi della quattro per cento verso la leggenda.

Sono i nostri Fab Four, chiedo sorry ai Beatles, vi abbiamo portato via anche questo titolo, voi semplici baronetti, noi gran regnanti dei Giochi. Nessun alibi, nessuna scusa, non c'erano scozzesi, gallesi o ragazzi dell'Irlanda del nord a giustificare la sconfitta, c'era un solo apparentato, Zharnel Hughes che viene da Anguilla, gli altri tre erano e sono inglesi veri, Ujah, Kilty e soprattutto Mitchell Blake, ultimo frazionista: spingeva, sbuffava, inforcava, slittava nell'aria dolce di Giappone improvvisamente acida e sentiva di fianco il soffio potente di Filippo Tortu. Di nuovo primi, come nei cento metri, era appena l'altro ieri, allora un britannico a mangiare polvere, Hughes, quello di Anguilla, squalificato prima di incominciare a correre.

Storia lontana quella degli inglesi che ancor ci sfottono, pensando di essere al centro dell'universo, depositari e docenti di ogni scienza, lo sport prima di tutto, momenti di boria e di superiority complex, guardando dall'isola il resto del mondo annaspare tra rane e spaghetti e cowboys. L'Olimpiade rimette un po' d'ordine in sala, la crescita azzurra dona gloria imprevista, se dovessimo fare i conti puri e duri, potremmo setacciare le medaglie britanniche, divise per i quattro cantoni del Regno Unito ma questo sarebbe un gioco infantile e inutile e presuntuoso, tipico del perdenti, di chi non sa perdere e si rifugia nelle accuse meschine. Sul muro all'ingresso del Central Court di Wimbledon, teatro massimo non soltanto del tennis, è riportata una frase di Rudyard Kipling: «Possa tu trattare la Vittoria e la Sconfitta, questi due impostori, allo stesso modo...», qualche fantasista nostrano ha aggiunto di proprio «...

sarai un uomo», queste ultime parole non risultano però si modellano benissimo sul corpo malinconico dei Made in United Kingdom, afflitti dal vivere ai margini e all'ombra di chi galleggia nella vittoria, mentre loro marinano nella sconfitta. E non è finita. Oh yes.

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