Il caos in Tunisia, alle porte di casa nostra, dimostra una volta in più il fallimento della primavera araba di dieci anni fa. E la totale incapacità dei movimenti che l'hanno cavalcata, vicini ai Fratelli musulmani, anche nelle versioni più moderate come il tunisino Ennahda, di gestire la democrazia e il proprio paese.
Se la Tunisia esplodesse del tutto in una «seconda rivoluzione» invocata dalla piazza e ancora peggio in una guerra civile o una nuova dittatura, l'impatto lo sentiremo subito a Lampedusa con un'impennata di arrivi via mare. I tunisini sono già la prima nazionalità degli sbarchi a quota 5.805 (quasi la totalità negli ultimi giorni). Secondo le stime dell'intelligence potrebbero arrivarne 15mila entro la fine dell'anno. Numeri elaborati prima della crisi scoppiata in occasione della festa della Repubblica, la più grave della giovane e incerta democrazia tunisina.
Non è un caso che il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, abbia subito chiamato Bruxelles. La Commissione Ue avrebbe dovuto chiudere, dopo l'estate, il tanto agognato accordo, simile a quello con la Turchia, per arginare le partenze dei migranti e aiutare l'economia tunisina a risollevarsi da una crisi endemica. Un sollecito forte e chiaro è arrivato dal leader della Lega, Matteo Salvini, formalmente preoccupato per la folta comunità italiana in Tunisia, ma soprattutto per la possibile ondata di sbarchi se la situazione continuasse a degenerare. Nel paese sono registrati 3.537 connazionali in maggioranza italo-tunisini, un po' di imprenditori e pensionati che si godono le spiagge nord africane.
In dieci anni dalla «rivoluzione dei gelsomini», che ribaltò il regime di Ben Alì, il paese ha avuto dieci governi incapaci di fermare il crollo dell'economia, la svalutazione del dinaro e la crisi sociale. Il primo ministro Hichem Mechichi, appena destituito dal presidente Kais Saied, è il terzo premier ad assumere la carica nel giro di un anno. I Fratelli musulmani locali di Ennahda denunciano il «golpe», ma il capo dello Stato ha invocato la Costituzione per congelare il Parlamento a sua volta frammentato in bizzose formazioni politiche. Gli islamisti gridano al lupo per mascherare il loro fallimento al potere. Il popolo, esasperato, è sceso in piazza contro carovita, corruzione e crisi economica. La miccia che ha fatto esplodere la «bomba» sociale è la disastrosa gestione della pandemia. La sanità in frantumi ha permesso al virus di provocare il più alto numero di vittime al mondo in rapporto alla popolazione. Il piano vaccinale è morto sul nascere a tal punto che il presidente voleva spedire nei centri l'esercito. Saied, avvocato costituzionalista, non è un politico di professione, ma ha annusato l'aria. E non a caso dopo il colpo di mano è sceso in strada fra la gente che festeggiava con fuochi d'artificio.
Ennahda, che ha indicato il premier silurato, non rinuncerà facilmente al potere e il capo dello Stato potrebbe non essere in grado di gestire l'emergenza imprimendo una vera svolta. Il passo dalla democrazia sospesa alla dittatura è breve. Dietro l'angolo sono pronte a cogliere l'attimo le cellule del terrore mai sopite che si ispirano al Califfato con una tradizione di «emiri» che si erano fatti le ossa in Italia.
La vicinanza con la Libia alimenta il traffico di essere umani e le infiltrazioni jihadiste.
La destabilizzazione della Tunisia preoccupa pure l'Algeria, confinata ad ovest e traballante «gendarme» del Nord Africa. L'Italia e l'Europa devono fare di tutto per disinnescare la bomba tunisina, non solo per la spina nel fianco dei migranti, ma per la stabilità dell'altra sponda del Mediterraneo.
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