"Tempi cambiati con la pandemia". Il centrodestra riparte tra il bipolarismo e l'incognita "centro"

Ronzulli: "Messaggi confusi". Carfagna: "Chiudere la stagione della rabbia". Il lungo viaggio fino al 2023 tra autocritiche e timori. Il meloniano Fazzolari (Fdi): "Il proporzionale che piace a Fi rischia di disgregare l'alleanza"

"Tempi cambiati con la pandemia". Il centrodestra riparte tra il bipolarismo e l'incognita "centro"

Non c'è tanta voglia di raccontare la sconfitta. Il giorno dopo è sempre così, ti viene voglia di staccare tutto, assopire il rumore di fondo e ripartire da qualche parte, dove precisamente ancora non si sa. C'è chi prova a vedere le cose con un certo distacco, quella del Pd potrebbe essere una vittoria di Pirro. Ha vinto ma in troppi non hanno votato. Solo che l'astensionismo rischia di essere l'alibi di chi ha perso. La parola d'ordine nel centrodestra è stare calmi. Non servono gli sfoghi, né amari e né di rabbia. Ci sarà tempo per discutere, per chiarire un bel po' di cose, per ragionare sulla reale consistenza dei sondaggi. Il paradosso in fondo è proprio lì: la maggioranza degli italiani non si sente di sinistra, però poi i voti penalizzano il centrodestra, soprattutto nelle metropoli. È come se ci si fosse impegnati a perdere, senza volerlo, senza saperlo. Maurizio Gasparri dice che non è questo il tempo di puntare l'indice. «Chi ha sbagliato lo sa. Non serve stare qui a ricordarlo». Il rimpianto è sul gioco dei veti sui candidati politici o con una storia personale di peso. «I profili civici - sostiene ancora Gasparri - sono validi quando portano un effettivo valore aggiunto. Un esempio? Letizia Moratti quando vinse a Milano». Sulle scelte di Roma, Torino e Milano ormai c'è poco da dire. Ormai è andata e non sarà questo a mettere in crisi in tre partiti della coalizione. Il difficile adesso è trovare un futuro condiviso. Che fare? È chiaro che bisogna guardarsi in faccia. Presto. Forse la prossima settimana. Forse prima. «Ci stiamo organizzando per vederci». È il messaggio che arriva da Giorgia Meloni. C'è chi si interroga se inviterà Berlusconi e Salvini a lasciare la maggioranza. La risposta non può che essere questa: «Non ho formalizzato richieste». È qui lo squarcio fragile della coalizione. C'è chi sta dentro, chi sta fuori e chi balla sul confine. Un parlamentare leghista si chiede se il no della Meloni al governo di emergenza sia stato tatticamente saggio. «Draghi in questa stagione è uno scudo e funziona se non lasci spazio a troppe ambiguità». È un messaggio a Fratelli d'Italia, ma rimbalza sulla Lega. Matteo Salvini per primo dovrà scegliere una strategia più nitida. È quello che ci si aspetta quando partiranno i congressi.

Il problema è dove fissare il fulcro della coalizione. Molti in Forza Italia fanno notare che uno degli errori è non aver capito che i tempi sono cambiati. I quasi due anni di pandemia fanno sembrare distante la stagione del populismo. Si dice che spesso si fa l'errore di combattere con le stesse tattiche della battaglia precedente e non ci si rende conto che il sentimento e le situazioni sono ormai diversi. L'elettore questa volta voleva essere rassicurato sul futuro. Non è stato fatto. Licia Ronzulli, per esempio, sostiene proprio questa tesi: «Molti elettori del centrodestra non sono andati a votare perché non si sono sentiti rappresentati da alcuni messaggi confusi. Quali? Quelli su vaccini e green pass, ovvero la ricetta per la ripartenza dell'Italia». Il centrodestra avrebbe insomma inseguito rancore e disagio una minoranza più o meno rumorosa. Mara Carfagna non nasconde il desiderio di vivere in una coalizione moderata: «Chiudiamo la stagione della rabbia». Non è un caso che a lei risponda subito Carlo Calenda con un «giusto».

Ecco, qua si apre l'eterna questione del «centro». Qui bisognerebbe interrogarsi sulla geografia della politica italiana. Nelle ultime stagioni ci si è abituati a girare intorno a tre poli. La caduta dei Cinque Stelle fa riemergere invece una logica bipolare: da una parte il Pd e Conte, dall'altra Berlusconi, Salvini, Meloni. Questo schema però non è affatto in equilibrio. C'è fermento proprio al «centro» dello schieramento, dove resistono i grillini ortodossi o nostalgici che non vogliono morire contiani e si muovono Conte e Calenda. Il «centro» in qualche modo esiste. Il suo destino dipende anche dalla legge elettorale. Su questo aspetto vale la pena fare due chiacchiere con Giovan Battista Fazzolari. Il senatore di Fratelli d'Italia, molto vicino a Giorgia Meloni, evidenzia una debolezza storica: le poche «casematte» per difendersi dalle campagne di demonizzazione della sinistra. Non bastano i voti per vincere e governare, ma serve un consenso di opinione. Il centrodestra deve costruire una «cultura». Quanto è capace di riconoscersi? Il timore di Fazzolari tira poi in ballo anche la legge elettorale. «Il proporzionale che in tanti evocano rischia di disgregare la coalizione. Le sirene di Forza Italia verso il centro si faranno più forti e insidiose».

Replica di Forza Italia: finora a muoversi con una logica proporzionale all'interno della coalizione sono stati loro. Fratelli d'Italia non media, non fa compromessi, non si apre. Non basterà un vertice per risolvere tutto questo. È un lungo viaggio fino al 2023.

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