Se la verità non è al di sopra della legge

È stato affermato il principio per cui la ricerca della verità deve sottostare alle regole della gerarchia delle procura

Se la verità non è al di sopra della legge
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«La sua condotta ha creato grave vulnus all'immagine del magistrato, al sistema organizzativo e alla giurisdizione nel Suo complesso perché pubblicamente si è ingenerata l'idea che qualunque magistrato, forte dell'esigenza di ricercare la verità, si possa arrogare compiti che non gli competono se non delegati».

La Disciplinare del Csm presieduta da Fabio Pinelli con la sentenza n° 44 del 2024 (relatore Rosanna Natoli, depositata solo nei giorni scorsi) marca una linea netta rispetto ai magistrati che esondano nelle loro indagini e segna un principio che farà discutere, proprio nei giorni in cui si ragiona di riforma della giustizia e rapporti con la politica. Il primo: la verità non si può cercare a tutti i costi. Il secondo: la gerarchia delle Procure prevale sempre sull'autonomia del singolo magistrato, sottoposto comunque alle decisioni del suo capo, alla faccia del potere giurisdizionale «diffuso» e dell'articolo 107 della Costituzione.

I due paletti dovrebbero valere per tutti i magistrati, non soltanto per il sostituto Pg di Milano Cuno Tarfusser, condannato alla censura per aver chiesto la revisione del processo per la Strage di Erba (istanza accolta dalla Corte d'appello di Brescia, se ne discute il 10 luglio) senza confrontarsi con il proprio superiore Francesca Nanni e con l'Avvocato generale Francesca Tontodonati, a cui spettavano - secondo il regolamento organizzativo interno e secondo il Csm - la scelta di delegare o meno queste indagini. Un contrasto amplificato dalla stampa che ha restituito all'opinione pubblica l'immagine «di una Procura altamente conflittuale al proprio interno, contribuendo ad alimentare la sfiducia del privato cittadino nella magistratura come istituzione».

Tarfusser andrà in pensione il 12 agosto, il buffetto del Csm è una macchiolina nera su un curriculum altrimenti impeccabile (tanto che il ruspante magistrato farà ricorso in Cassazione), e poco importa al Csm che sui dubbi sollevati rispetto alla sentenza che ha condannato Olindo Romano e Rosa Bazzi alla mattanza dell'11 dicembre 2006 i giudici bresciani abbiano dato ragione a lui e torto alla Nanni, secondo cui l'istanza era inammissibile.

Sostenere che la ricerca della verità abbia dei limiti imposti dalla gerarchia e da un regolamento interno è un principio su cui certamente molti magistrati non saranno affatto d'accordo, anche perché calpesta il principio dei procuratori capi primus inter pares e potenzia (e di molto) il peso delle correnti nella scelta dei procuratori capo, che possono orientare l'azione inquirente con molto più vigore di prima. Chissà, ad esempio, che cosa ne pensa l'Associazione nazionale magistrati e chi blatera di autonomia e indipendenza della magistratura, non solo rispetto alla politica ma al suo interno.

Nel libro Il Sistema Luca Palamara aveva teorizzato al nostro direttore Alessandro Sallusti la figura del pm spregidicato che poteva condizionare la vita politica, che la faceva sotto il naso al suo capo grazie soprattutto all'appoggio di qualche giornalista e di un ufficiale di Pg con qualche entratura. In passato ne abbiamo visti un bel po', da Antonio Di Pietro a Henry John Woodcock, non solo con Mani Pulite o con l'assedio giudiziario contro Silvio Berlusconi. Luigi de Magistris agiva all'oscuro del suo superiore, convinto che fosse in combutta con le persone su cui indagava, tanto che alla fine è stato cacciato dalla magistratura (come Palamara). Paolo Storari chiese lumi a Piercamillo Davigo sul pasticcio delle indagini su Eni legate alle dichiarazioni di Piero Amara, bypassando il suo superiore del tempo Francesco Greco e dicendo peste e corna del collega Fabrizio De Pasquale (molto più di quanto avrebbe fatto Tarfusser). La reputazione di Milano ne è uscita a pezzi eppure il pm se l'è cavata con un nonnulla. Giovanni Falcone fu «ucciso» professionalmente prima di Capaci dalla mancata nomina (decisa dal Csm) a capo dell'Ufficio Istruzione e per questo andò in rotta con il suo nuovo superiore Antonino Meli.

Persino Paolo Borsellino fece delle «sue» indagini sulla morte dell'amico e morì prima di poter condividere tutte le sue intuizioni con la Procura di Caltanissetta che aveva la delega alle indagini. Chissà se questo Csm avrebbe punito anche lui.

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