Il seggio per diritto divino

Nell'Italia divisa tra bagnanti e politici in campagna elettorale, torna a risplendere il mito del seggio sicuro

Il seggio per diritto divino

Nell'Italia divisa tra bagnanti e politici in campagna elettorale, torna a risplendere il mito del seggio sicuro. Non importa che sia blindato o paracadutato, l'importante è che garantisca un'elezione automatica, senza la minima fatica o il minimo rischio di sconfitta. Sorprende nel dibattito sulle candidature come politici di terza fila o pseudo campioni della società civile subordinino la loro discesa in campo alla vittoria assicurata. E se soltanto esiste una teorica difficoltà, meglio rinunciare per evitare figuracce o tormentare la dirigenza del partito per ottenere un posto migliore in lista.

L'incubo di oggi, per gli aspiranti parlamentari, è lo stesso che ha terrorizzato i ragazzi per tutto il Novecento: ti mando in collegio. Una volta erano austeri istituti al limite della colonia punitiva, oggi circoscrizioni elettorali (174 alla Camera e 74 al Senato) dove vince il candidato più votato. Il famoso «uninominale secco» che dà poche speranze agli outsider o ai rappresentanti di partiti che in quel territorio partono svantaggiati.

Ai tempi andati, era un normale esercizio di democrazia per i partiti farcire le liste di «tappabuchi», uomini e donne senza alcuna speranza di approdare in Parlamento. In genere erano oscuri funzionari che si godevano cinque minuti di notorietà vedendo il loro nome sul tabellone elettorale o amministratori che sarebbero stati schierati seriamente alla legislatura successiva. Adesso, invece, diventa impossibile individuare un solo volontario per fare numero.

Il seggio in Parlamento viene ormai considerato un diritto divino, un superbonus assimilabile a una vincita alla lotteria. Suona quasi come un'offesa sentirsi proporre di correre in un «collegio contendibile», un eufemismo per individuare quelle circoscrizioni perse in partenza ma che si potrebbero vincere come si faceva una volta: prendendo più voti dell'avversario.

Magari non è il caso di rimpiangere il vecchio sistema delle preferenze che aveva moltiplicato a dismisura cordate strane, scambi di favori e spese per la campagna elettorale. Ogni sistema contempla allo stesso modo vantaggi e degenerazioni. Turba invece l'atteggiamento di chi non concepisce più di spendersi in una campagna elettorale. Nell'epoca del consenso immediato sui social, è quasi considerato un impiccio sottoporsi al giudizio di migliaia di elettori reali, in carne ed ossa. Un fastidio fare comizi, convincere gli indecisi, illustrare un programma di governo, visitare osterie e bocciofile, fare bella figura davanti a imprenditori che assumono, producono e fatturano. Non c'è giorno in cui scienziati o altri santoni di turno non solo diano per scontata la loro cooptazione in Parlamento, ma già parlano come ministri in pectore che hanno in tasca la soluzione miracolosa che nessuno ha mai trovato. Più che la centralità del Parlamento, sembrano interessati alla propria santificazione politica, senza sottoporsi a una minima trafila democratica.

È una deriva che trova sponda fertile in chi ama la comodità della situazione, come i grillini incandidabili al terzo mandato che si fanno sostituire in lista dai congiunti. La democrazia consente a tutti di esprimersi: meglio presentarsi di persona a un elettore che chiudere la pratica con uno sproloquio sui social.

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