Stuprata dai profughi copre i suoi aguzzini per non essere razzista

Portavoce di un movimento pro-accoglienza tace per mesi in nome del «politically correct»

Noam Benjamin

Le bugie di Selin. Titola così lo Spiegel nel raccontare la storia di Selin Gören, portavoce di Linksjugend Solid, il movimento giovanile del partito social-comunista tedesco Die Linke. Una storia triste perché è il racconto dello stupro subito dalla giovane donna lo scorso gennaio a Mannheim, nel Baden-Württemberg. I nonni sono in visita dall'Anatolia e riempiono la casa d'affetto ma anche di lodi per Erdogan, di critiche per i curdi del Pkk e di consigli su come Selin dovrebbe vestirsi più modestamente. La giovane politica ascolta, sorride e decide di fare una passeggiata fuori programma nel parco dietro casa, per prendere una boccata d'aria. Là Selin subisce lo stupro da parte di tre ubriachi che le rubano anche la borsa. Dolore, umiliazione e vergogna. I tre violentatori finalmente la lasciano e lei, sconvolta, corre verso un albergo e chiede di chiamare la polizia. Accorrono tre volanti i cui uomini le chiedono se i suoi assalitori fossero rifugiati o stranieri. I fatti di Colonia le molestie sessuali di massa da parte di giovani nordafricani a danni di ignare passanti la notte di San Silvestro hanno molto colpito l'opinione pubblica tedesca sono su tutti i giornali e la Germania è in piena emergenza-profughi.

Selin non è una ragazza che racconta bugie, ha un ruolo pubblico. Però è anche reduce da una serie di manifestazioni targate Linksjugend Solid sul dovere dell'accoglienza e della solidarietà ai rifugiati. Ed è qua che la storia si fa controversa. Le domande le sembrano razziste e la sua risposta è netta: «Nein». Alle forze dell'ordine la giovane dice che il gruppo era «misto», che fra loro parlavano tedesco, mettendo subito fuori causa i rifugiati mediorientali appena approdati. La disciplina di partito e il dovere politico prevalgono sul rispetto di se stessa. Il politically correct vince sulla voglia di urlare al mondo l'orrore subito, di avere giustizia. Al contrario, a Facebook affida un lungo post in cui si rivolge ai profughi in fuga dalla guerra, raccontando le miserie umane osservate di prima persona in un campo profughi nel Kurdistan turco: «Ho visto l'inferno da cui state scappando. Ho visto troppe nonne obbligate a prendersi cura di tanti orfani». Selin sa cos'è il dolore ed è pronta a riconoscere quello degli altri, calpestando però se stessa.

Mesi dopo a un congresso del suo partito, si legge ancora, «Selin incontra una vecchia conoscenza, un tedesco di origine siriana». E là scatta qualcosa. «Il volto rotondo, i capelli corti e la pelle scura le ricordano uno degli uomini che l'aveva violentata». Selin scappa in preda al panico.

Ci vorranno molti pianti e molte discussioni anche con gli amici più intimi prima che la giovane riesca a dire la verità, recuperando il rispetto di sé e la capacità di discernere i rifugiati non come un tutto buono in assoluto ma come un gruppo di individui, fra i quali non mancano quelli in grado di violare la legge. Non è stato facile, confessa incontrando il redattore dello Spiegel in un caffè della sua città: «Non volevo mentire alla polizia, ma non volevo neanche che la mia storia fosse strumentalizzata dai razzisti».

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