Ho riflettuto a lungo sul perché provassi compassione ma anche un profondo fastidio per le lacrime di Soumahoro. E per quella sua intervista a In Onda, mentre la De Gregorio lo incalzava e Paolo Mieli continuava a chiamarlo «onorevole». Per lui, che invece di prendere le distanze e chiarire la sua estraneità ai fatti che gli venivano contestati, blaterava confuso, senza riuscire a tracciare una linea oltre la quale mettersi in salvo dalla gogna.
Soumahoro, come noto, è stato eletto con Sinistra e Verdi, in coalizione PD. Egli però non ha un suo elettorato, perché i lavoratori che rappresenta non hanno diritto di voto. È insomma il fratello maggiore dei braccianti africani d'Italia. Comprendo bene le sue lacrime. Ma la verità è che Soumahoro ha pianto perché si è accorto, all'improvviso, di essere soprattutto il fratello minore di quella sinistra italiana che, come direbbe Michel Onfray, ha smesso di essere sociale per diventare «la società». Ha capito di esser stato eletto per tacitare il senso di colpa di quella borghesissima sinistra italiana che lo manda in Parlamento pur di non farlo sedere in salotto.
In questi anni passati in Italia ho studiato, ho lavorato, ho pagato tutte le tasse. E ho militato a sinistra perché, nel profondo, sono una socialista liberale. Ho sempre pensato che la sinistra fosse la mia casa e che non avrei mai potuto cercarmene un'altra. Ho cercato di compiacere, di essere accettata. Di essere lì, per i miei amici della sinistra italiana, quando e se avevano bisogno di me. Ho cercato disperatamente di essere accettata da tutte queste scrittrici e giornaliste di sinistra che per qualche strana ragione invece di parlarmi, di confrontarsi, mi bloccavano sui social senza alcun motivo. Ho una collezione di screenshot che custodisco caramente, un vero e proprio archivio storico dell'intellighenzia femminile italiana con la quale non ho mai interagito e che è tanto sensibile da usare la schwa ma altrettanto miserabile da bloccare una perfetta sconosciuta per quegli stessi pregiudizi che, a parole, combatte. Unica brillante eccezione, che cito perché non mi riguarda: Lucia Annunziata che liquida le donne ucraine come badanti e escort. «Ecco, - ho pensato - finalmente una stronza di sinistra senza vergogna».
Perché la verità è questa (e la scrivo soprattutto per te, Aboubakar): la sinistra italiana è visceralmente ipocrita. A sinistra, ogni volta, fra le intenzioni e i comportamenti, si apre un abisso nel quale i pesci piccoli (come te, Aboubakar) fanno una finaccia. Proprio come nell'Opera da Tre Soldi: «il pescecane ha i denti ma li porta in faccia, Macki ha un coltello ma nessuno glielo vede». Forse sarà per questo che chi ha di meno spesso preferisce i pescicane ai cuori sanguinanti in salotto.
Quelle lacrime mi hanno irritato perché mi hanno riportato al porto di Bari, nel 1997, quando scendendo da quella barca i poliziotti mi controllavano per vedere se avessi i pidocchi o qualche altra malattia. Mi hanno riportato tra i sans papiers, per quanto io oggi possa dire come San Paolo: Civis Romanus Sum. Mi hanno riportato a quando ero una bambina e cercavo di comunicare con gli altri con le tre parole che avevo a disposizione. Nessuno mi ascoltava, nessuno mi capiva.
Allora forse è arrivato il momento di spiegarmi meglio: le comunità di immigrati in Italia contribuiscono all'11% del Pil e rappresentano il 10% dell'elettorato. Questi numeri, secondo i dati Istat e EU, sono destinati a crescere esponenzialmente nei prossimi anni. Quindi noi esistiamo. E, forti di questi numeri, smettiamo di cercare la vostra approvazione o di frignare in tv.
E abbiamo diritto di affermarci nel rispetto assoluto delle leggi del Paese che ci ha accolto ma nel quale smettiamo di essere sgraditi ospiti il giorno stesso in cui versiamo sangue all'Agenzia delle Entrate. Che vi piaccia o no.*Imprenditrice, Ambasciatrice Connect Albania per UN Migration
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