Tajani lancia l'idea di privatizzare i porti. Ma Salvini frena

Il leader della Lega: "Non è nel programma". Ecco quanto vale la partita infrastrutture

Tajani lancia l'idea di privatizzare i porti. Ma Salvini frena
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Quale destino attende i grandi porti italiani? Scali come Trieste, Genova, Livorno, Bari, Spezia o Gioia Tauro saranno i protagonisti di una nuova stagione di liberalizzazioni e privatizzazioni, anche per ridurre il debito pubblico, oppure manterranno lo status quo in attesa della riforma promessa dal governo per la fine dell'anno?

A confrontarsi in seno alla maggioranza sul futuro di una delle infrastrutture strategiche del nostro Paese sono stati i due vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini. Se il numero uno di Forza Italia e ministro degli Esteri al Meeting di Rimini ha lanciato l'idea di privatizzare i porti, il leader della Lega nonché ministro dei Trasporti l'ha stoppata: «No, non è nell'agenda del governo».

A dire il vero lo stesso Tajani aveva già specificato a La Stampa come la sua fosse una «proposta politica», un esempio della «necessità di riaprire un processo di liberalizzazione dei servizi nel nostro Paese, proprio come negli anni Novanta». Non quindi un punto del programma elettorale ma «un'idea politica, una proposta, che vogliamo discutere all'interno del nostro partito», magari da tradurre in un disegno di legge in questo senso», aveva chiarito il segretario di FI, convinto che «una gestione privata aumenterebbe l'efficienza, attirerebbe gli investitori e farebbe risparmiare soldi al settore pubblico». Lo schema di liberalizzazione potrebbe comportare «un'Authority spa, con una quota di garanzia «da parte di Cassa Depositi e Prestiti», che potrebbe esprimere il presidente e i privati tra gli azionisti.

Evidente che alla base del confronto tra Tajani e Salvini resta una visione più o meno liberale del mercato e quindi del ruolo dello Stato. Una questione non da poco visto che il sistema marittimo vale almeno il 3% del Pil e oltre un terzo degli scambi commerciali del nostro Paese avviene via mare. Senza contare le ricadute del turismo e in particolare dell'industria delle crociere. Aiuta a chiarire il quadro un recente studio della stessa Cdp dal titolo eloquente: «La globalizzazione rallenta, un'opportunità da cogliere per i porti italiani». La premessa è che l'assetto del mondo post globalizzazione se da un lato toglie slancio al commercio mondiale, dall'altro favorisce la cooperazione nel Mediterraneo. Sul cui specchio d'acqua l'Italia si protende come un ponte naturale: caratteristica perfetta per diventare l'hub logistico portuale di elezione tra il Nord Africa e l'Europa. A ben guardare lo stesso percorso da cui già giunge gran parte del gas che consentirà al nostro Paese di emanciparsi dagli approvvigionamenti russi.

L'Italia occupa inoltre il primo posto in Europa per traffico marittimo a corto raggio, cioè regionale, per volumi di merci movimentate (14% del totale) contro il 13,5% dei Paesi Bassi, il 10% della Spagna e il 7% della Francia. Ecco perché i porti rientrano tra i capitoli del Pnrr. Per «valorizzare pienamente» la collocazione strategica del nostro Paese, ammonisce lo studio di Cdp, è tuttavia essenziale agire su quattro fronti: migliorare l'efficienza dei servizi portuali, potenziare le infrastrutture per l'intermodalità, svilupparne le aree limitrofe come le zone economiche speciali e promuovere l'efficientamento degli scali in un'ottica green.

In sintesi serve (molto) denaro da investire, che sia pubblico o privato poco importa. Ma come ha già avvertito il ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, non ci sarà spazio per tutto nella legge di Bilancio; e il Patto di Stabilità complica ulteriormente la sfida.

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