Un papato senza ideologie con un unico cardine: la condanna del denaro

Tracce di dottrina sociale della Chiesa con uno spirito sudamericano. Le accuse da sinistra e destra di peronismo e guevarismo

Un papato senza ideologie con un unico cardine: la condanna del denaro

Quando un Papa sceglie un nome non lo fa mai a caso. È un mercoledì inaspettato e il calendario segna 13 marzo 2013. L'aria è umida e la fumata bianca non si vede con chiarezza. Jorge Mario Bergoglio, arrivato da lontano, dalla Fine del Mondo, si alza in piedi. I cardinali, seduti sotto la volta della Cappella Sistina, applaudono senza troppo entusiasmo. Monsignor Guido Marini si avvicina e, abbassando il capo, chiede: «Come vuole chiamarsi, Santità?». Non ha dubbi. Si ricorda cosa gli ha sussurrato poco prima il cardinale brasiliano Hummes: «Non dimenticare i poveri». Il nome non può che essere quello. «Mi chiamerò Francesco». Nessun Pontefice aveva mai osato tanto.

Francesco, il santo poverello di Assisi, il figlio di mercanti che si spoglia di tutto davanti al padre e al vescovo. Francesco che parla ai lupi e ai passeri e chiama fratello il sole e sorella la luna, il folle di Dio che ricostruisce pietra su pietra una Chiesa in rovina. Questo nome, Francesco, è uno scarto di lato, uno strappo, un segno, un programma, una missione. È la carta d'identità del suo papato. È da qui che parte la sua visione etica della vita, con un percorso lineare, senza arabeschi e asterischi, con uno slancio più letterario che filosofico. Il cardine è semplice: stare con gli ultimi, abbracciare il loro sguardo, condannando il culto del denaro, senza però ricorrere a nessuna ideologia, rifiutando l'idea hegeliana e marxiana che la storia umana si svolga con una dinamica dialettica. In Misericordia Vultus e Amoris Laetitia si sente l'influenza di Sant'Agostino e San Tommaso: la misericordia come il vero volto di Dio. Ci sono tracce della dottrina sociale della Chiesa, con la Rerum Novarum di Leone XIII, ma con uno spirito sudamericano con i riferimenti alla «teologia del popolo», variante argentina della «teologia della liberazione». È da qui che arrivano le accuse da destra e da sinistra di «guevarismo» o di «peronismo». Quella di Bergoglio però non è una scelta politica o intellettuale, ma di cuore, con il sentimento che va a sanare il vuoto morale della ragione. È il rifiuto di mandare al macero della società le pietre di scarto, quelle che contro la logica dell'efficienza possono diventare pietre d'angolo.

Papa Francesco è il gesuita che si butta in mezzo alla mischia per dare risalto alla natura umana di Dio. La vita come avventura straordinaria che trova senso solo nella metafisica e affidandosi alla provvidenza, il cielo è l'ultimo orizzonte ma è la terra il posto dove fai i conti con quello che sei. Il miracolo del cristianesimo è in un percorso di andata e ritorno. È incarnazione e resurrezione. È qui e altrove e non ci può essere l'uno senza l'altro.

Bergoglio non è sapiente come Wojtya nell'arte della politica, non ha la teologia di Ratzinger. È un narratore. La sua forma è il romanzo. È la passione giovanile e ribelle per la narrativa dei gauchos, come il Don Segundo Sombra di Ricardo Güiraldes o il Martín Fierro di José Hernández. È il fascino che non lo ha mai abbandonato, inseguendo fede, libertà e redenzione, per I fratelli Karamazov e per qualsiasi profondità dell'anima Dostoevskij abbia esplorato. È l'arguzia con cui si compiace di citare ogni volta che può un romanzo del 1907 di Robert Hugh Benson. Il padrone del mondo racconta un futuro dove il Cristianesimo è stato sommerso dal cinismo della tecnica. Tutto è protocollo. Tutto è ragione. I rumori sono aboliti, i cibi sono prodotti nei laboratori, l'esperanto ha sostituito la babele delle lingue. C'è un prete ribelle che si ostina a non rassegnarsi. Qui c'è il carattere di Bergoglio, che ammira l'anomalia e forse ci si specchia. C'è una frase sottolineata nella sua copia di La valle dell'Eden di John Steinbeck: «In mezzo a tutta la mia incertezza, sono però certo di una cosa: che gli uomini sotto lo strato superficiale di fragilità vogliono essere buoni ed essere amati.

In effetti, molti dei loro vizi non sono che tentativi d'infilare scorciatoie per arrivare all'amore. Non importa quali fossero i suoi meriti, l'influenza e l'ingegno, se uno muore non amato la vita sarà per lui un fallimento e la morte un gelido orrore».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica