Roma - «Non ci possono essere gelosie delle informazioni, né troppi timori di interferenze: per contrastare il terrorismo in modo efficace magistratura e intelligence devono lavorare stabilendo un canale di collegamento». Franco Roberti queste cose le ha dette alle commissioni di Camera e Senato e le ha ripetute al Csm, che le ha fatte sue nel parere inviato al Guardasigilli Orlando. Ora il procuratore nazionale antimafia, che da febbraio è anche il coordinatore delle indagini antiterrorismo aspetta, per avere i poteri necessari, che il decreto-legge del governo sia corretto in parlamento, in sede di conversione, soprattutto nel punto dei rapporti tra Dna e servizi.
Rapporti che sono stati sempre difficili, anche perché il principio della se parazione dei poteri a volte può fare da freno alla collaborazione.
«Separazione non vuol dire separatezza: l'incomunicabilità assoluta è nefasta, perché impedisce la circolazione di notizie importanti nel contrasto dei jihadisti. Il decreto non ha attribuito alla Dna che guido poteri sufficienti, ma sono convinto che ora le modifiche verranno fatte. Nessuno si può tirare indietro di fronte alla sfida del terrorismo. Nel corso delle indagini ci dev'essere rispetto delle diverse sfere di competenza: noi non vogliamo interferire sulle attività dei servizi, né loro possono farlo sull'autorità giudiziaria. Ma serve un momento di raccordo tra due azioni parallele, che devono rimanere tali. D'altronde, il codice di procedura penale già prevede la leale collaborazione da parte degli inquirenti che mettono a disposizione informazioni utili per l' intelligence ».
Ma finora lei non ha mai incontrato il capo dell'antiterrorismo Mario Papa, che risponde al Viminale?
«No, ancora non c'è nessun coordinamento. Ho chiesto di far parte del Casa, il coordinamento tra polizia e servizi, ma sembra che non si farà».
Dopo i fatti di Tunisi anche in Italia c'è grande preoccupazione per la sicurezza.
«Il livello è di massima allerta, con la mobilitazione di servizi e forze di polizia. La Dna si sta attrezzando, a l livello interno, per svolgere la sua attività di coordinamento e di impulso. Nel contrasto al terrorismo, ancor più che alla mafia, è però determinante il raccordo tra azione giudiziaria e di intelligence . Tanto più adesso che, con l'introduzione nel decreto di nuove figure di reato, è prevedibile che nei prossimi mesi aumenti il carico penale».
E il collegamento con gli organismi europei?
«È un'altra modifica al decreto che ho raccomandato alle Camere: la Dna dovrebbe essere il referente di Eurojust anche per il terrorismo, oltre che per la mafia come già è».
In passato lei è stato impegnato a Napoli contro il terrorismo di algerini e marocchini. Per la sua esperienza, gli attentatori del museo del Bardo sono cosiddetti cani sciolti?
«No, la sensazione è piuttosto che siano soggetti integrati nel sistema dell'Is, addestrati in Libia o in Irak».
E seguono una strategia precisa?
«Abbiamo visto negli ultimi anni un'evoluzione del fenomeno jihadista, diventato più molecolare: formato da piccoli gruppi, con pochissimi soggetti, addestrati e con grande mobilità sul territorio. Sono gruppi non isolati ma in contatto tra loro, con un'ideologia in comune. Non direi, però, che obbediscono a un'unica regia».
E in Italia quanto è reale il pericolo?
«Il nostro Paese ha già avuto minacce pesanti, che non si possono sottovalutare. C'è la sua posizione geografica, così vicina alla Libia e c'è la presenza del Vaticano. Anche ora abbiamo visto l'ultimo oltraggio alla povera vittima di Tunisi, definita un crociato».
Lei ha detto che l'immigrazione clandestina
e la tratta possono alimentare il terrorismo. È così?«Non intendevo che i terroristi possono arrivare sui barconi, anche se non si può escludere, ma che i proventi del traffico possono finanziare gli estremisti».
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