Tre immagini raccontano Donald Trump meglio di qualsiasi articolo o racconto. Quella del suo rientro alla Casa Bianca dopo aver rischiato di morire di Covid. Quella scattatagli nel carcere di Atlanta e subito trasformata con sapiente arguzia nel simbolo della propria persecuzione. E, infine, quella dell'ex-presidente con il volto imbrattato di sangue e il pugno alzato alla bandiera che ulula «combattiamo» mentre la folla esplode in un coro di «Usa, Usa, Usa».
Quell'immagine oltre a fare storia, riuscirà a ribaltarla. Da sabato notte «The Donald» non è più, agli occhi dei suoi sostenitori, una vittima, ma un eroe indomito, un condottiero capace di affrontare in piedi non solo il fuoco di media ostili e giudici schierati, ma anche a quello di un vero fucile d'assalto. Un'immagine iconica che richiama alla mente dei suoi fan - ma anche di tanti americani non schierati - le imprescindibili capacità di un «comandante in capo». Prima fra tutte quella di scegliere con immediata freddezza l'opzione migliore. E di saperlo fare anche a rischio della propria vita. In quest'ottica la scelta spavalda di Trump - deciso e determinato nel rivolgersi al proprio popolo ancor prima di sapere quale fosse stata la sorte del suo attentatore - è stata sicuramente vincente. Da ieri la sua immagine sovrasta l'incerta e patetica fragilità di un Joe Biden incapace, talvolta, persino di trovare la sedia su cui tornare a sedersi. E quella stessa immagine metterà fine con tutta probabilità all'agonia del Presidente in carica costringendo i democratici ad un disperato quanto complesso cambio in corsa.
Ma tra l'agonia di Biden e la consacrazione di Trump celebrata sabato sera nella contea di Butler c'è anche l'immagine dell'attentatore riverso in una pozza di sangue. Quell'immagine ci ricorda che negli armadi dell'America si nascondono 120 armi ogni cento abitanti. Quell'arsenale di quasi mezzo milione tra fucili e pistole rappresenta un'incognita spaventosa per una nazione che dall'elezione di Lincoln e dalla successiva guerra civile non è mai stata cosi divisa e rancorosa. Per capirlo bastano i post di chi si rammarica che i colpi non siano andati a segno. O quelli di chi grida al complotto. Per non parlare delle polemiche sul clamoroso fallimento dei servizi segreti. La lontananza delle guardie del corpo, appostate sotto il palco anziché accanto a Trump, e la mancata sorveglianza di un tetto distante solo 130 metri dal candidato diventano, in questo clima, la prova più evidente del «complotto». Un «complotto» che nei messaggi disseminati sui «social» dai sostenitori di Trump è opera di una Cia e di un «Deep State» - lo «Stato profondo»- decisi a non farlo arrivare vivo al 4 novembre. E soprattutto a impedirgli d'arrestare una guerra in Ucraina che - nel racconto dei suoi fedeli - arricchisce il «complesso militare industriale» a spese dei contribuenti.
Polemiche ingigantite dal fatto che i Servizi Segreti, responsabili della sicurezza dei candidati, fanno capo al Dipartimento della Sicurezza interna e quindi all'Amministrazione Biden. Ma dall'altra parte c'è chi scorge nell'attentato l'evidente «false flag», la «falsa bandiera» di un attentatore iscritto alle liste repubblicane e quindi «sacrificato» per spianare la strada al «capo». Congetture, accuse e deliri che sono altrettanto sale sulle ferite di una democrazia sempre più divisa dove l'odio scava solchi difficilmente rimarginabili. E ci regala un'immagine lontanissima da quella dell'11 settembre di 23 anni fa. Quello di allora era un paese tragicamente scosso e turbato, ma stretto intorno al proprio presidente e alla propria bandiera.
Da sabato sera, invece le stelle e le strisce sollevate sul pugno chiuso di Donald Trump non sono più la bandiera di un popolo,
ma solo lo stendardo in cui ciascuno dei contendenti ulula i propri slogan e la propria rabbia. Un'immagine da brividi che rischia di trasformare i tre mesi e mezzo da qui al 4 novembre in un terrificante salto nel buio.
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