Ma il Viminale non è l'unico "colpevole". L'asse franco-tedesco ha più responsabilità

La politica della Lamorgese troppo appiattita sulle posizioni dem. Però l'anello debole è l'Europa: Macron e Merkel cercano consensi per non perdere voti

Ma il Viminale non è l'unico "colpevole". L'asse franco-tedesco ha più responsabilità

Matteo Salvini qualche ragione ce l'ha. Luciana Lamorgese nei due anni all'Interno non è mai riuscita a realizzare il salto da prefetto a ministro trasformandosi da semplice gestore del Viminale in ispiratore di politiche originali e funzionali. Gli insuccessi nel controllo dei flussi migratori ne sono la prova evidente.

Promossa da funzionario a esponente di governo grazie all'avvallo del Pd non ha mai saputo affrancarsi dall'ideologia dem. Le sue limitate e ambigue politiche di contrasto alle Ong, unite all'abolizione dei decreti sicurezza dell'era Salvini, hanno finito con il garantire ai migranti irregolari un accesso indiscriminato. Gli oltre 29mila 400 sbarchi di quest'anno - a fronte degli appena 3mila 290 dell'analogo periodo del 2019 a gestione Salvini - ne sono la prova evidente. Ma è altrettanto evidente che la sostituzione del ministro dell'Interno, pretesa con toni da aut-aut dal leader della Lega, non risolverebbe una questione il cui perimetro s'estende, oggi, ben al di là delle competenze del Viminale.

A differenza degli anni passati l'Italia affronta, infatti, una doppia emergenza. Alla Libia, fonte primigenia dal 2014 al 2018 di ogni sbarco, s'è aggiunta la Tunisia. La duplicazione del flusso migratorio determina una situazione difficilmente arginabile senza una politica comune europea. In Libia la diga garantitaci dalla creazione di una Guardia Costiera tra le cui fila continuano ad operare troppi ex-trafficanti resta precaria e imbarazzante. L'affondo di una Turchia, tentata dall'idea di sottrarci il controllo delle motovedette, o un precipitare della situazione interna, basterebbero a privarci dell'unica difesa efficiente. Non a caso pur di garantire quella tappa irrinunciabile, quanto incerta, del processo di pacificazione rappresentata dalle elezioni del 24 dicembre, il ministro degli esteri Luigi Di Maio ha affrontato ieri la quinta trasferta libica dell'anno incontrando a Tripoli il premier Abdulhamid Dbeibah e poi, in Cirenaica, il generale Khalifa Haftar e il presidente del parlamento di Tobruk. Ma se la situazione libica resta un'incognita, quella tunisina è un piano inclinato. Lì lo scontro tra il presidente Kais Saied e un'opposizione islamista con potenziali derive terroriste rendono irresistibile una tentazione migratoria moltiplicata dalla crisi economica e da una pandemia fuori controllo.

Ma nessun ministro dell'Interno, anche assai più bravo e visionario della Lamorgese, può oggi garantire da solo la soluzione di quelle due crisi. Su quel doppio versante l'unica soluzione efficace è un'azione comune dei paesi europei. Mario Draghi lo comprese sin dall'inizio dell'estate, quando sollecitato anche dall'intelligence, chiese inutilmente, per ben due volte, al Consiglio Europeo di affrontare la questione. La lungimiranza di Supermario venne allora cassata dalle ansie di un'Angela Merkel timorosa che un'intesa sui migranti aggravasse la débâcle del suo partito alle elezioni di settembre per il rinnovo del Bundestag. E alle paure della Cancelliera si aggiunsero quelle di un Emmanuelle Macron preoccupato, per gli stessi motivi, di compromettere la corsa alla rielezione del prossimo anno. La defezione più grave fra le due è stata quella francese. Non a caso sia Draghi, sia il presidente Sergio Mattarella hanno dedicato ulteriore paziente attenzione alla ricucitura dei rapporti con Parigi.

Perché lì, e non nella semplice trasferimento della poltrona del Viminale, sta la soluzione del problema.

Ricucire con la Francia significa trovare politiche comuni in Libia e garantire al presidente Kais Saied uno scudo alla minaccia islamista capace di stabilizzare il paese e far ripartire l'economia. Tutto il resto equivale a guardare il dito anziché la luna.

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