Del Ponte in difficoltà «Ma non ho sbagliato»

E torna a chiedere la consegna di Karadzic e Mladic mentre crescono le critiche alla sua gestione

Del Ponte in difficoltà «Ma non ho sbagliato»

Roberto Fabbri

Slobodan Milosevic «potrebbe essersi suicidato e lo stabilirà entro oggi l’autopsia», ma non per questo la linea seguita dal Tribunale penale internazionale (Tpi) deve essere considerata sbagliata; semmai ora è ancor più urgente e necessario che vengano catturati e consegnati all’Aia gli ultimi due grandi latitanti serbi rimasti, Radovan Karadzic e Ratko Mladic. Carla Del Ponte, procuratore capo del Tpi, è ben lontana dal pronunciare un’autocritica per le circostanze della morte dell’imputato attorno al quale ruotava l’intera costruzione giudiziaria a lei affidata.
Ieri all’Aia si è presentata ai giornalisti ostentando l’abituale determinazione. Ha respinto le critiche di quanti le facevano osservare che il maxiprocesso inscenato aveva avuto due effetti discutibili: offrire a Milosevic una ribalta inopportuna e al tempo stesso metterne a repentaglio la salute notoriamente malferma. Ha riconosciuto la propria frustrazione per la morte improvvisa di «Slobo» a processo in corso, ma ha insistito sul fatto che molto prezioso lavoro era stato fatto e che il dibattimento era alle ultime tappe: Milosevic avrebbe ancora avuto a disposizione 40 ore per difendere se stesso davanti alla corte, com’era abituato a fare, mentre i testimoni rimasti da ascoltare erano ormai ben pochi. «Entro maggio avremmo potuto concludere questa fase», ha commentato la Del Ponte.
La sua frustrazione, ha insistito, non riguarda i temi indicati dai suoi critici, né il fatto che ora il Tpi si trovi in una situazione di difficoltà e fatto oggetto di polemiche che a suo avviso non merita. Semmai, ha spiegato, le dispiace per la perdita «di anni di duro lavoro, di energie, di risorse consumate e di ostacoli superati». E per i familiari delle centinaia di migliaia di vittime delle guerre di aggressione in Croazia, in Bosnia e nel Kosovo, ai quali sperava di poter rendere giustizia.
Per questo, ha detto, è ora più che mai necessario e urgente che il governo di Belgrado consegni al Tribunale dell’Aia i criminali di guerra Karadzic e Mladic. Ma la fine ancora poco chiara di Slobodan Milosevic nella sua cella di Scheveningen sta fornendo argomenti a quanti pretendono che il premier serbo Vojislav Kostunica non faccia niente del genere. E non si tratta soltanto delle prevedibili prese di posizione dei familiari dell’ex presidente, dei suoi compagni di partito e in generale della vasta platea nazionalista serba o del suo avvocato difensore Jacques Verges, che gridano all’assassinio; perfino Zoran Zivkovic, braccio destro del premier Zoran Djindjic che nel 2003 pagò con la morte (una brutale esecuzione condotta da sicari nel centro di Belgrado) la consegna all’Aia di Milosevic da lui decisa due anni prima, ha definito ieri la morte del suo vecchio nemico «una vergogna per il Tpi».
L’operato di Milosevic, ha detto Zivkovic durante la commemorazione del terzo anniversario dell’omicidio di Djindjic, «resta una delle pagine più buie della nostra storia», ma la sua morte senza una sentenza e una spiegazione plausibile non può che essere una sconfitta. Zivkovic teme che ancora una volta il faticoso cammino della Serbia verso l’Europa risulti rallentato e ostacolato, anche se nega di temere «gravi turbolenze politiche».

Ma è inutile nascondersi che per gli irriducibili ultrà del nazionalismo serbo, già impegnati a gridare contro il referendum secessionista del Montenegro e lo spettro dell’indipendenza del Kosovo, l’oscura fine di «Slobo» è una manna.

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