
di Milton Friedman
In un recente articolo sulla povertà comparso su «Newsweek», Shana Alexander ha scritto: «La disponibilità di cibo, vestiario, abitazione e assistenza medica è un diritto fondamentale dell'uomo». Il cuore approva la preoccupazione umanitaria di Alexander, ma la mente ci mette in guardia circa il fatto che la sua affermazione può essere interpretata in due sensi molto diversi, uno compatibile con l'esistenza di una società libera, l'altro no. Il primo è che ognuno dovrebbe essere libero di impiegare le proprie capacità umane per procurarsi cibo, vestiario, abitazione ed assistenza medica, tramite la produzione diretta o la cooperazione volontaria con altri. Questa è l'essenza di una società libera, fondata sulla cooperazione volontaria. Si tratta di un principio tutt'altro che banale. Anzi, ritengo che la maggior parte degli stenti e delle miserie presenti negli Stati Uniti siano una conseguenza della interferenza dello Stato in questo diritto. Non è possibile guadagnarsi da vivere diventando idraulico, barbiere, becchino, avvocato, fisico, dentista, o scegliendo qualunque altro mestiere, senza prima esserne autorizzati dallo Stato. E l'autorizzazione dipende di norma da coloro che esercitano quel mestiere, ed hanno quindi interesse a restringerne l'accesso. Se volete ottenere un lavoro ben pagato come falegname, muratore o elettricista, avrete delle difficoltà, a meno che non riusciate ad aderire a un sindacato, il che può non essere facile se vostro fratello, o vostro padre o vostro zio, non sono già sindacalizzati. Sarà poi particolarmente difficile se siete di colore e poveri, non importa quanto competenti. Come nel caso della American Medical Association, i sindacati possono imporre il loro rigido monopolio, solo grazie all'appoggio del governo. Prendiamo il caso di un giovane nero, le cui prestazioni sono valutate correntemente solo 1,50 dollari all'ora: quasi tutti i datori di lavoro commetterebbero un'infrazione assumendolo, anche se il giovane accettasse quella paga.
Con questo ho soltanto scalfito la superficie delle attuali restrizioni al diritto fondamentale dell'uomo di usare le sue capacità come meglio gli pare: diritto che ha, come unico limite, quello di non interferire con la libertà altrui di fare altrettanto. Ma questo non è ciò che Alexander intende, come risulta chiaro dalla frase che viene dopo: «Quando i legislatori cercano di far coincidere il benessere con un asservimento al lavoro , essi operano una distorsione più che una ridefinizione di quel principio fondamentale». Shana Alexander sembra ritenere che voi ed io abbiamo un diritto fondamentale in quanto uomini ad essere nutriti e vestiti, ad avere un'abitazione, a ricevere assistenza medica, senza corrispettivo. In tal caso, la questione è ben diversa. Se ho diritto al cibo sulla base di questo principio, qualcuno deve essere obbligato a fornirmelo. E chi deve essere costui? Se fosse Alexander, non diventerebbe forse mia schiava? Il fatto di attribuire il diritto non ha senso se non è accompagnato dal potere di obbligare il prossimo a procurarmi quei beni che, secondo Alexander, mi spettano. Questo è chiaramente inaccettabile.
Eppure non possiamo neanche accontentarci del diritto di accesso secondo la prima interpretazione. Anche se la salvaguardia di quel diritto contribuirebbe a ridurre drasticamente la miseria e la povertà, rimarrebbero ancora delle persone che, non per colpa loro, ma per accidenti di nascita, per malattie, o per qualunque altro motivo, non sono in grado di guadagnare quel reddito da tutti ritenuto il minimo accettabile. Credo che la soluzione migliore, anche se, lo ammetto, imperfetta, per risolvere tali miserie, sia una azione volontaria da parte di tutti noi allo scopo di assistere i nostri fratelli meno fortunati.
Ma il nostro problema è molto più grave. Le restrizioni al diritto di accesso nel suo primo significato, insieme a sconsiderate misure di assistenza sociale, hanno fatto sì che milioni di persone dipendano dallo Stato per il soddisfacimento dei bisogni più elementari. È stato un errore aver consentito che la situazione si evolvesse in questo senso. Ormai è successo, e non possiamo semplicemente ripartire da zero. Dobbiamo elaborare dei programmi di transizione che eliminino il caos del settore assistenziale senza causare danni eccessivi a chi attualmente ne usufruisce. Questa è la ragione per cui, da trent'anni, mi batto perché l'attuale collezione dei cosiddetti programmi di aiuto ai poveri venga sostituita da un'imposta negativa sul reddito che garantisca un reddito minimo a tutti, e che incoraggi gli assistiti a rendersi autosufficienti. Sono favorevole a un'imposta negativa sul reddito, non perché credo che tutti abbiano un diritto a cibo, vestiario e abitazione a spese del prossimo, ma perché desidero unirmi agli altri contribuenti nell'intento di alleviare la miseria.
Mi sento inoltre particolarmente obbligato ad assumere questo impegno, dal momento che sui provvedimenti governativi grava la responsabilità di aver spinto un numero così grande dei nostri concittadini nella avvilente situazione in cui si trovano oggi.
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