Il premio Oscar Sorkin sceneggia per gioco lo scontro Trump-Biden

La campagna ha superato la fantasia Ma ora Hollywood si mette in pari

Il premio Oscar Sorkin sceneggia per gioco lo scontro Trump-Biden
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Il potere politico (occidentale e, non si sa ancora per quanto, mondiale) ha un centro, che è Washington. L'indirizzo è il 1600 di Pennsylvania Avenue: la Casa Bianca. E, dentro il suo edificio simbolo, c'è un cuore ulteriore dove quel potere pulsa, si esplica, si condensa e da cui si irradia: la West Wing, l'Ala Ovest, dove si trova il famosissimo Studio Ovale. Quello che, a freccette, si chiamerebbe il Bull's Eye: 50 punti, il bersaglio dal punteggio massimo, là dove il Presidente degli Stati Uniti si siede alla scrivania e decide le sorti del «mondo libero», di cui si ritiene «leader».

Questa non è pura retorica da fiction, anche se è grazie a una fiction che l'Ala Ovest è diventata un mito dell'immaginario globale: West Wing appunto, che Aaron Sorkin ha ideato fra il 1999 e il 2003 (in totale, le stagioni sono sette, ma le ultime tre non sono più firmate da lui). Oggi, a venticinque anni dalla prima puntata, il Paley Museum di New York ha dedicato una mostra a questa serie-fenomeno, che si intitola Inside The West Wing (sarà aperta fino all'8 settembre). Come mai a New York? Perché il potere politico è a Washington, la celebrità è a Los Angeles ma il successo patinato di West Wing ha un sapore che si gusta tipicamente a Manhattan. Non a caso, è fra i suoi grattacieli che Aaron Sorkin ha ambientato altre due serie, Newsroom e Billions.

La popolarità raggiunta da West Wing si può spiegare in vari modi. Primo: la curiosità di entrare nel meccanismo quotidiano di decisioni, imprevisti, sgambetti, passi falsi, ipocrisie, intuizioni e adrenalina che si sviluppa nei corridoi della Casa Bianca, e che la serie ci permette di osservare in presa diretta, seguendo i vari membri dello staff presidenziale passo dopo passo, mentre discutono, affrontano i problemi, litigano, scherzano... E qui interviene il secondo fattore: Sorkin è un genio della sceneggiatura e i suoi dialoghi sono strepitosi. Non per niente, sua è la firma a Codice d'onore e alla indimenticabile difesa di Jack Nicholson (in Billions, altra vetta da tribunale: l'autodifesa di Paul Giamatti/Chuck Roades), anche se l'Oscar per la sceneggiatura l'ha vinto con The Social Network nel 2011. Terzo: la serie mette in scena una specie di «amministrazione ideale», con Martin Sheen nel ruolo del Presidente democratico Josiah Butler e Rob Lowe in quello di Sam Seaborn, l'uomo delle comunicazioni della Casa Bianca. La politica non è soltanto media ma, negli ultimi anni, lo è diventata sempre di più e West Wing ha mostrato questa tendenza in anticipo; questo aspetto è così importante all'interno della serie, che nella mostra al Paley Museum è possibile, fra le altre cose, fare un'esperienza nella «sala stampa».

Aaron Sorkin ha immaginato anche, a un certo punto, che il Presidente abbia una malattia (la sclerosi multipla), che abbia omesso di rivelarlo alla Nazione e che debba decidere se ricandidarsi o no per un secondo mandato. Praticamente, la situazione di Joe Biden. È anche per questo che il New York Times ha chiesto a Sorkin di immaginare una sceneggiatura per la campagna democratica del 2024.

Prima ancora dell'annuncio delle dimissioni di Biden, Sorkin ha suggerito quello che filosoficamente potremmo definire un cambio di paradigma: per battere Turmp, i democratici dovrebbero scegliere un candidato repubblicano. Mitt Romney, secondo Sorkin, sarebbe perfetto. Una decisione drastica, che metterebbe il Paese al primo posto. Un «sacrificio», una mossa da eroi della West Wing.

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