Una notte prossima ventura, sulle coste mediterranee
di una nazione europea si arena una flottiglia di navi e barconi,
carica di un milione di emigranti. Poveracci in preda alla miseria,
intere famiglie con donne e bambini, una nuvola di disperazione
proveniente dal Sud del mondo verso quella che è ritenuta la Terra
promessa. Sperano e ispirano una immensa pietà. Deboli, disarmati,
posseggono solo la forza che è propria del numero. Sono l’oggetto dei
nostri rimorsi e dell’angelismo delle nostre coscienze. Sono L’Altro,
cioè la moltitudine, meglio, l’avanguardia della moltitudine. Ora che
sono qui, accetterà quella nazione, «terra d’esilio e d’accoglienza »
per eccellenza, di riceverli, a rischio di incoraggiare la partenza di
altre flotte di infelici che lì si preparano? Perché poi è
l’Occidente in quanto tale a scoprirsi minacciato: essere sommerso è
ciò che l’attende, e insomma la propria fine. Che fare, dunque?
Rinviarli da dove sono venuti, ma come? Chiuderli in campi profughi
recintati? Sì, ma poi? Usare la forza contro la debolezza? Affrontarli
con la marina, con l’esercito? Sparare? Sparare nel mucchio? Chi
obbedirebbe a simili ordini? A tutti i livelli, coscienza universale e
coscienza individuale, governi, equilibri geopolitici, ci si pone
queste domande, ma, ormai, è troppo tardi...
Nel 1973, quando Le Camp des Saints
di Jean Raspail uscì per l’editore Laffont, in Francia si fece finta
che fosse un romanzo razzista e si pensò che il silenzio fosse il modo
migliore per parlarne. Trenta e passa anni dopo, mai citato eppure
sempre più tradotto, sempre esaurito, sempre riedito e sempre
ristampato, sino a questa nuova edizione (389 pagine, 22 euro) che si
avvale di una prefazione ad hoc del suo au-tore, è forse giunto il
momento per prenderlo per quello che è: un romanzo realista nella sua
prefigurazione del futuro. Negli Stati Uniti, dove il moralismo non
esclude il pragmatismo, The Camp of the Saints è divenuto un classico, studiato nelle università e al Pentagono, livre de chevet
di intellettuali come Paul Kennedy, Samuel Huntington, Jeffrey Hart.
Nel Vecchio continente, dove gli sconquassi della sponda orientale di
quello che una volta si definiva mare nostrum ,
sono sotto gli occhi di tutti, ci si continua a rifugiare nei soliti
cliché: fratellanza, spirito umanitario, senso di responsabilità nei
confronti dei meno fortunati. In Italia, lasciamo perdere... Mentre un
leader come il britannico Cameron parla del fallimento del
multiculturalismo, la Comunità europea non sembra nemmeno affer-rare,
come ha scritto l’altro giorno Guido Ceronetti sul Corriere della sera ,
che «un afflusso sulle coste italiane di sbarcanti a flottiglie intere
farebbe esplodere, nell’intera penisola, la precaria e già provata
convivenza urbana. L’immigrazione di diseredati, senza un prima né un
dopo, in una civiltà di tormentati impoveriti d’idee, si potrebbe
definirla con nomi appropriati, severi, gravi, invece che con vulgate
buonistiche e aspersioni di ottimismo là dove un dramma insolubile si
presenta e ci schiaccia?».
Trenta e passa anni dopo, Ceronetti prende dunque
di petto «una sfida storica: che dire? che fare?» che trenta e passa
anni prima Jean Raspail aveva fatto materia di romanzo, e siccome
Ceronetti è un uomo mite e non sospetto di razzismo, bisognerebbe,
credo, prestargli attenzione. Anche perché, come scrive egli stesso,
«i Romani chiamavano Africa un solo punto: Cartagine. Ci sarà un
remoto, temuto, fantasma che si è risvegliato, sulle rovine di
Cartagine, dove vagava Caio Mario? Quel che è buono per Cartagine può
esserlo anche per Roma?».
Quando Raspail scrisse il suo romanzo, i movimenti
di liberazione del cosiddetto Terzo mondo erano in auge, ogni dittatore
nato sulle rovine del colonialismo era considerato un rivoluzionario,
applaudito come tale da una sinistra marxista allora in piena salute,
l’Europa era scossa dalla contestazione studentesca e non solo al suo
interno.
La questione dell’immigrazione era ancora in fasce,
ma il clima ideologico dell’epoca era già pronto per trasformarla in
qualcos’altro: l’internazionalismo che batteva in breccia il
nazionalismo «bianco», l’idea di meticciato che si sostituiva all’idea
di tradizione, lingua, radici; gli «altri» potevano e dovevano essere
fieri delle loro, all’Europa non era più permesso: ne aveva
approfittato, e ora doveva espiare e divenire un’altra cosa. Nel tempo,
la porosità delle frontiere, l’inflazione delle naturalizzazioni, la
nazionalità acquisita per matrimonio, la ripugnanza degli europei a
esercitare mestieri umili resa possibile dall’utilizzo al loro posto
di migliaia e migliaia di immigranti, la spirale inarrestabile dei
clandestini (regolamentazione, riunione delle famiglie, scolarizzazione
obbligatoria dei bambini) e l’ombrello sociale comunque predisposto
(sovvenzioni alle associazioni di sostegno, prestazioni sociali,
alloggi eccetera) ha fatto il resto.
Nel Camp des Saints ,
non è in discussione la religione. Non è la minaccia del
fondamentalismo islamico a essere prefigurata. È il numero, sono le
motivazioni di ordine materiale, esistenziale: la miseria, la
disperazione, la visione di una terra promessa, l’aspirazione a una
vita migliore. Il paradosso è che tutto ciò che un certo pensiero unico
occidentale depreca o demonizza al proprio interno, il consumismo, il
lusso, persino il sesso, giudica però degno della bramosia di chi
arriva dall’esterno: gli fanno schifo le televisioni commerciali, le
veline e le letterine seminude, i supermarket e i grandi magazzini, ma
è pronto a offrirli al Terzo mondo perché ne gioisca anche lui. È un
suo diritto... È il trionfo della dialettica e del contorcimento
intellettuale, quello che da trenta e passa anni ha del resto dettato
legge nei giornali, nelle università, nell’editoria e che ha creato
un «politicamente corretto » grottesco quanto velenoso. Raspail ne dà
un riassunto esemplare: «Giorno dopo giorno, mese dopo mese, sul filo
del dubbio,l’ordine diveniva una forma di fascismo, l’insegnamento
un’imposizione, il lavoro un’alienazione, la rivoluzione uno sport
gratuito, il piacere un privilegio di classe, la famiglia una realtà
soffocante, il consumismo un’oppressione, il successo sociale una
malattia, la giovinezza un tribunale permanente, la disciplina un
attentato alla personalità umana ».
Torniamo a bomba. Un ideale umano che si pone al
di sopra delle nazioni, dei sistemi economici, delle religioni è
un’astrazione, non significa nulla, se non appunto il niente assoluto,
qualcosa come la fissione dell’atomo, il vuoto immenso liberato d’un
colpo. Parliamo di diritti universali dell’uomo perché è il metodo più
comodo per evitare di affrontare la realtà e perché speriamo sempre
che la realtà non ci presenti il conto. Eludiamo il problema, vogliamo
avere la coscienza tranquilla e quindi non guardiamo ai numeri, alla
demografia, ai rapporti di forza. Ci inteneriamo di fronte alle classi
multietniche, naturalmente, sono così carini quei bambini e nella
retorica del 150˚ dell’Unità d’Italia, poi, fanno così colore...
Fingendo di pensare ai nostri figli, gli prepariamo un futuro a cui non
sapranno né potranno opporsi. Perché una notte prossima ventura, sulle
coste mediterranee di una nazione europea...
Ps. Le Camp des Saints è stato tradotto in italiano alla fine degli anni Novanta, dalle Edizioni del Cavallo alato, la piccola casa editrice di Franco Freda. Non se n’è accorto nessuno o quasi, ma chi lo vuole ridurre a un romanzo razzista non ha che da impugnare quel nome come una clava. Siamo sempre un Paese di indignati speciali.
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