Il protagonista

Milano«Dovevo riflettere». Mentre lo tsunami era a un passo dall’infrangersi sulla sua carriera. Mentre la fila dei dissociati (politici) si allungava di minuto in minuto. Mentre incassava l’aut aut del sindaco Moratti. Mentre il capo dello Stato si indignava. Mentre il vuoto pneumatico in cui sta cadendo scavava il suo solco. Ecco. Mentre tutto franava, lui «rifletteva». Rifletteva, Roberto Lassini, l’avvocato dei manifesti anti-pm. Dopo aver cavalcato l’onda per un paio di giorni (in)gloriosi, l’ex sindaco di Turbigo - candidato alle prossime comunali nella lista del Pdl - si è affacciato dal point break, ha guardato da basso e non ha visto nessuno. Perché l’ex sindaco Dc di Turbigo - che l’ha promessa ai giudici per quei 42 giorni passati in galera da innocente - era solo. E nella giornata più convulsa e storta della sua seconda vita politica, ha fatto la conta degli assenti e ha trovato che l’elenco era assai lungo. «Però ho ricevute decine di messaggi di solidarietà», spiega. Una notte e un giorno ad arrovellarsi. Poi, la decisione. «Dimissioni irrevocabili».
Scatenato prima. Incazzato poi. Quindi amareggiato. Stanco, ora, ma più sereno. Due giorni di resistenza passati nello shaker di telefonate, incontri privati, mediazioni, cercando una sponda che non arriva. La mattinata di ieri trascorsa con dua avvocati per studiare le mosse - «Se mi dimetto, il mio nome in lista rimane o no?» - un’udienza in tribunale («e ho anche incassato una buona parcella», ride), il boccone amaro della lettera con cui Mantovani gli annunciava il suo de profundis politico. Che rabbia, Lassini. Che poi - si era sfogato al telefono con il Giornale - «io sto con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi quando dice che i magistrati sono eversivi». Però «chiedo scusa anche ai giudici», che «io a San Vittore ero il sindaco del quinto raggio», e «sono piccolo piccolo, e in galera mi chiamavano Tangentopolino». Eppure, gli era andata di traverso. Ma come - ragionava - il partito ha un fronte aperto con la magistratura e mi scarica così? È che la partita si era fatta più grossa, con l’inchiesta («Ma dai, è un reato d’opinione da codice Rocco»), e le elezioni in ballo. C’è il suo nome a Milano, sulla lista del Popolo delle libertà. C’è che era diventata una questione di principio. «Io vado avanti finché...». Finché? Insomma, lui Berlusconi non lo conosce, «gli ho stretto la mano a un pranzo elettorale», ma il senso era chiaro. Vado avanti finche lo stop non arriva dal Cavaliere. Il premier non l’ha chiamato. Ma lui, «colpito dalle parole del presidente Napolitano», ha lasciato. Che poi, che significa lasciare? «Sono questione da azzeccagarbugli». Sì, ma il nome in lista? La campagne elettorale? «Mi sono dimesso, punto». Però gli brillano gli occhi a pensare che in fondo, chissà quanti voti dopo questo trambusto. «Non voglio nuocere alla Moratti», ma lo vedi che il fuoco della competizione è ancora vivo. C’è il suo staff con lui. C’è la moglie. C’è l’assessore Tiziana Maiolo. Inseguito dai giornalisti, dice basta. Si chiude in ufficio e «lasciatemi, sono stati giorni pesanti».
Scatenato, incazzato, amareggiato. Poi anche avvelenato. «Perché se mi arrabbio ho tante cose da raccontare...». Era l’ultima carta di Lassini. La storia dei manifesti anti-pm. Così si era messo al tavolo verde. Quattro carte in mano. O un poker servito, o un bluff. La mossa del kamikaze. Ultimo rilancio prima dello showdown. Poi la svolta. Ma è svolta davvero? Perché nemmeno lui sa dire se all’atto pratico la sua candidatura si può ritirare. Sia come sia, il frullatore è agli ultimi giri.

Ci ha pensato a lungo, Lassini, prima di dire basta. L’avesse fatto tre giorni fa, il suo sarebbe stato solo un nome fra i tanti. Stava alla lettera «L», più o meno a metà di una lista elettorale. Tsunami o meno, per ora quel nome è ancora lì.

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