Quando l’artista e il critico contavano ancora qualcosa

A Trieste s’è aperta la mostra «La coscienza di Tullio. Kezich e le sue città: Trieste, Milano, Roma» (palazzo Gopcevich, via Rossini 4, fino al 13 marzo).

F igure sfaccettate come Tullio Kezich - triestino prestato a Milano e a Roma - di critico, storico, produttore, sceneggiatore, attore, commediografo, romanziere sono eccezionali perfino dove il cinema, con saggistica e narrativa connesse, confluisce in un cartello industriale. Figurarsi dove il cinema è un artigianato, come in Italia. Ma qui, più che altrove, il critico ha contribuito al cinema. Kezich, classe 1928, s’inserì dunque nel dopoguerra in una tradizione già vasta e articolata: prima monarchica e fascista, poi antimonarchica e fascista, infine repubblicana e antifascista.
Kezich è stato un patriota socialista, che è un ossimoro solo per chi ignora la complessità della politica rispetto ai semplicismi dell’ideologia. Sopravvissuto, come il concittadino Lelio Luttazzi, ai bombardamenti capitalisti del 1944 e alle stragi comuniste del 1945, nel 1950 Kezich poteva permettersi di prendere la Guerra fredda con umorismo: nell’anno santo per il Vaticano, nell’anno maledetto per la Corea, entrò nel cinema non più da spettatore, non più da critico alle prime armi, ma da ispettore di produzione per Cuori senza frontiere di Luigi Zampa, interpretandovi anche un piccolo ruolo: da milite jugoslavo! Poteva permetterselo, senza parere un rinnegato: tutto in Kezich era italiano, meno il cognome.
Quando Kezich produsse, con la «22 dicembre», Il terrorista dell’ex gappista Gianfranco De Bosio, realizzò uno dei migliori film sulla guerra civile, protagonista per la prima volta Gian Maria Volonté. In quel periodo Kezich era anche giornalista alla Settimana Incom, avendo per collega Giorgio Pisanò, reduce della Rsi. Ancora vent’anni dopo - anni di piombo -, Pisanò mi parlava di lui come collega di rara lealtà. Analogo, quando Kezich era ormai diventato critico di un Panorama allineato con l’ultrasinistra, il giudizio che di lui mi dava Claudio Quarantotto, critico del Borghese… Non erano riconoscimenti comuni, allora.
Ha ancora senso la critica di un film? Certo ne ha meno di una volta. Quando Kezich aveva trent’anni, non c’era James Cameron che preparava Avatar. C’erano Fellini che preparava La dolce vita; Antonioni, che preparava L’avventura; Godard, che preparava Fino all’ultimo respiro; Wyler, che preparava Ben-Hur; Ford, che preparava Soldati a cavallo; Wilder, che preparava A qualcuno piace caldo.
Oggi è diverso il cinema ha dovuto cambiare per inseguire il pubblico. Quello nazionale trova sui quotidiani dibattiti sui cine-panettoni, condotti dai fautori dell’anti-intellettualismo. Per il resto nulla di nuovo: a fine anno si confrontano, come d'uso, gli incassi dei film di Brizzi, Lucini, Miniero, Moccia, Pellegrini… Quando Kezich aveva trent’anni, si confrontavano gli incassi dei film di Bianchi, Corbucci, Mastrocinque, Mattòli, Simonelli, Corbucci… Certo non si dedicavano all’argomento pagine di quotidiano, perché era normale che i film incassassero molto.
Anche in tempi di crisi strutturale, non congiunturale del capitalismo, il reddito si mantiene costante più del talento.

Ma anche quest’ultimo si rigenera: Sorrentino e Garrone si sono imposti nei grossi Festival e Muccino a Hollywood, Giordana e Moretti sono alterni nel rendimento, ma lavorano ancora, mentre l’infermità ha allontanato dagli schermi Bertolucci. Allora quale differenza c’è fra l’«era Kezich» e il «dopo-Kezich»? La considerazione per l’artista, che è sempre minore.

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