Quegli slogan sono la fiera delle banalità

Non convincono. Troppa promiscuità Non faccio altro che vedere immagini di docenti che fanno lezione nelle piazze, in perfetta sintonia con gli studenti. Il nemico è una solo, non è il «sistema». Tutti contro la Gelmini. Il collegio dei docenti del liceo Mamiani di Roma ha approvato una «mozione-guida» per chiedere il ritiro del decreto Gelmini. Gli studenti dell’«Orientale» di Napoli hanno distribuito pacchi. Per cercare di essere spiritosi e alludere al «pacco» della riforma universitaria. Vana è la ricerca di illuminazioni, negli slogan prevedibili: «Il futuro dei bambini non fa rima con Gelmini»; «Il 5 in condotta te lo diamo noi». E sempre più spenti: «State tagliando il nostro futuro»; «La vostra crisi non la pagheremo noi». Mesto e didascalico: «La scuola pubblica è un diritto: difenderlo è un dovere»; senza slancio: «Riprendiamoci il futuro»; «Il futuro era meglio in passato». E ancora freddure del genere: «Abbiamo cominciato per non fermarci», «Il ministro della pubblica distruzione»; e perfino «Cogito ergo protesto». Abbiamo fatto una ricerca abbastanza approfondita in tutta Italia per trovare qualcosa di meglio di «Giovinezza al potere», ma gli studenti sembrano particolarmente mosci e i loro striscioni sembrano fatti per non scontentare insegnanti bolsi e impigriti nelle abitudini. Ecco allora gli striscioni giudiziosi elaborati alla scuola Normale di Pisa: «Un Paese vale quanto ciò che ricerca»; «Tagliate, tagliate che la ricerca taglia la corda». Fino al catastrofico e spericolato: «Siamo sull’orlo del baratro. Questa legge è un passo avanti». Non credo che la protesta andrà molto avanti, non credo che abbia necessità e urgenza. E non credo che la Gelmini possa essere un nemico che dia senso a una protesta. La sua riforma è ancora piccola e non radicale e dispiace più agli insegnanti che agli studenti. Il maestro unico era un valore della sinistra. Lo rimpiangevano come «un pilastro della nostra convivenza» Adriano Sofri e come un «totem sacro» Marco Lodoli. Quest’ultimo, citato l’altro ieri come intellettuale organico alla sinistra da Veltroni, con spirito dolente scriveva, qualche mese fa: «Poi qualcuno ha deciso che la maestra doveva moltiplicarsi, e da una è diventata tre, e tre maestre sono diventate un viavai di volti, abbondanza e confusione. Di sicuro qualcosa si è perso». Un altro idolo della sinistra, il sociologo Edgar Morin, aggiunge, convincentemente: «Il nostro sistema di insegnamento separa le discipline e spezzetta la realtà, rendendo di fatto impossibile la comprensione del mondo». Non molto originale dunque il ritorno al maestro unico, ma non coerente e unanime, e soprattutto convinta, la sinistra la reazione alla Gelmini. Il voto in condotta, in una scuola militarmente occupata dagli spacciatori di droga e dall’affermazione di modelli imitativi, mi sembra più che una ripresa nostalgica una necessità. Tutti ricordiamo i filmini di ragazzi che ammiccavano sessualmente con giovani insegnanti e supplenti. E come giudicare i ripetenti che hanno compiuto atti sessuali con la supplente molisana di Nova Milanese nella palestra della scuola? Si trattava di una lezione di quale materia? O era in senso letterale, una questione di condotta? Era forse preferibile sanzionarla con un: non classificabile? Né si capiscono le proteste per la reintroduzione del voto in decimi: una misura di buon senso. Un numero è più efficace di un giudizio spesso sgrammaticato o ipocritamente assolutorio. Sufficiente o insufficiente si misura meglio con i numeri che con le parole che moltiplicano le sfumature e eludono le condanne. Eliminare i voti dalla scuola equivale a eliminare gli anni di pena dal carcere sostituendoli con una condanna morale non quantificata. La Gelmini dunque non ha fatto danni, ma piccoli aggiustamenti, fino alla crepuscolare ingenuità del grembiulino, icona della nostra infanzia scolastica, imposto soprattutto per evitare di macchiare gli abiti con l’inchiostro delle penne in un’Italia povera. Ora ci sono le biro e anche i bambini sono schiavi delle mode e delle griffe. Ricondurli ad abiti anonimi sembra piuttosto una misura di sinistra severa e contraria alle ostentazioni che, soprattutto negli abiti, indicano le classi sociali.
Ma non è piaciuta, la Gelmini. Essa paga per Tremonti e per Berlusconi come una donna dello schermo. E, nelle strade, gli studenti sembrano difendere più gli interessi dei professori che i propri. La contestazione studentesca si affermò, ai nostri anni, come una ribellione contro il sapere cattedratico, contro la cultura dei professori, il nozionismo, la retorica, la mancanza di giudizio critico, il dogmatismo. In una parola, il principio di autorità. La lotta fu dura per rovesciare le gerarchie. Qui le gerarchie collaborano e si autotutelano rendendo gli studenti servi sciocchi per garantire cattedre e professori inutili. Così gli slogan riflettono questo difetto di motivazioni profonde. Nulla di paragonabile alla scritta che colpì la mia fantasia di studente, arrivato a Bologna, in via Zamboni, nel 1970.

C’era tutto con una forte metafora, e con un richiamo a una indistinta minaccia: «Monaco attento, fischia il vento». Era il vento di una libertà nuova che con gli anni è degenerata fino alla maionese impazzita delle languide e inefficaci scritte di oggi. Sotto la loro goffa inconsistenza la rivolta sarà travolta.

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