Quei ripettabili bravi che vivono ad Erba

Il curato più pavido e famoso della letteratura si vede invischiato nel terribile delitto che ha sconvolto la cittadina comasca. Riuscirà per una volta a dar prova di acume e coraggio

Diciassette chilometri e mezzo, forse diciotto, n’aveva percorsi don Abbondio, quali a piedi, i più in bicicletta. Lo chiamavano adesso financo da Erba per consigliare, dirimere, indirizzare. Della gran gazzarra ch’era successa in quel borgo era ormai a conoscenza mezz’Italia. Due donne, madre e figlia, e il figlioletto di quest’ultima eran finiti ammazzati, non si sa da chi, nella lor istessa casa. Ora si dimandava il suo buon lume.

«Ora, già» bofonchiava tra sé il buon prete. «Quando l’è troppo tardi».

Prima si scannavano, poi venivan ginocchioni da lui. Come se ’l primo fra tutti i buoni consigli non fosse proprio quello di starsene umili e quieti a casa propria: ché a seguire un simile indirizzo, si posson tener per certi che niun guaio gl’incorrerebbe. Oh, ma egli era uomo di mondo quanto bastava per capire che chi l’aveva presa, in questo caso i mal capitati, se la doveva pur aspettare. I morti non son mai innocenti.

Lasciata Lecco e, successivamente, Malgrate, aveva aggirato a nord il monte Barro, sulle cui pendici in passato l’aveva condotto talvolta, sia pur di malavoglia, la naturale inclinazione ad accertarsi che il coadiutore - che aveva l’abitudine, nelle quindicine più calde, di salirvi con i ragazzi del catechismo per quelli che chiamava «campi estivi» - non infilasse in quelle deboli teste troppi pensieri magari nobili negl’intenti, ma destinati poi a produrre esaltazione ed altri non dissimili guasti.

«La guardi che meraviglia» gli diceva il coadiutore mostrandogli, da uno spalto del Barro, la visione, spalancatasi improvvisamente dopo una curva del sentiero, della Grigna e del Resegone arrossati dal sole mattinale e, in basso, inumidita da una nebbiolina scintillante, la città di Lecco stretta tra l’estremo spuntone meridionale del lago di Como e l’altro lago minore, nel quale torna ad allargarsi l’Adda, e che prende il nome dal paesino di Garlate, che vi s’affaccia.

«Sì, meraviglia... Hai voglia...» rispondeva don Abbondio, che di levare il capo e guardare proprio non se la sentiva, con tutti i crucci che l’attraversavano giorno e notte.

Qual fosse poi la natura di tali crucci, non è dato sapere, né il nostro Anonimo ci è di conforto in proposito.

Passato il Barro con i suoi fastidiosi ricordi, don Abbondio aveva poi attraversato Malgrate, costeggiato il lago d’Annone, che si stende tra l’ondulata pianura e i contrafforti montuosi come un bambino raggomitolato nel sonno, facendo sosta alla pieve di Civate, dove un vecchio compagno di studi seminariali, che vi era parroco da diversi anni, lo volle con sé a pranzo.

Rimessosi in viaggio e trascorsi i villaggi di Suello e Cesana, aveva camminato lungo il romito lago di Pusiano, or tinto di rosa, tenendo il biciclo pel manubrio come un asino alla cavezza e recitando il vespero, e giungendo finalmente nella cittadina di Erba proprio mentre il campanile della parrocchiale annunciava l’arrivo della sera.
Sotto la torre campanaria, un uomo attendeva il nostro curato.

«Lei è don Abbondio, vero?».

«Per servire la sua signoria» rispose don Abbondio, cui l’aspetto altero dell’interlocutore e l’archibugio tenuto a tracolla da un suo giovine sottoposto suggerivano spontanei moti di rispetto e deferenza.

«L’autorità ha posto la mia indegna persona a capo della giustizia in questa città, e ora la vede in quale guaio ci troviamo» disse quegli, allargando le braccia. «Tutta la città è sgomenta, e noi per i primi, che pure s’avrebbe da dare conforto e fiducia».

«Sì, sì, capisco bene» disse don Abbondio, rincuorato e fatto ardito dall’aver compreso che l’uomo ch’aveva dinanzi non era né un bravo né un signorotto come quelli a lui ben noti «ma si può sapere perché avete dimandato proprio di me, che sto in Lecco?».

«L’è, padre, la fama della sua santità. I parenti degli uccisi l’hanno reclamata».

Bisogna sapere, infatti, che la vicenda - ora felicemente conclusasi - de’ due sposi, Renzo e Lucia, non essendo all’epoca ancora stata messa per iscritto dal nostro Anonimo, aveva potuto correre a lungo, e molto liberamente, di bocca in bocca per tutta Lecco, e Annone, e Calolziocorte, sulla Grigna come sul Resegone, e aveva naturalmente raggiunto Pusiano e finanche Erba, dove per diverso tempo, prima del fattaccio presente, era stata l’argomento principale delle chiacchiere comarili.

E chi sa quali forme fantastiche avrebbe assunto, e quali metamorfosi, se don Abbondio, che di quella vicenda era stato il protagonista più autorevole, non avesse fatto di tutto, con l’aiuto di talune sue donne a dir poco devotissime, per propagarne la versione più corretta, la più emendata d’ogni inutile ingegnosità, la più aderente, insomma, ai fatti.

Così, grazie anche all’indiretta complicità de’ due veri protagonisti, i quali non desideravan punto rimemorare, se non per sé stessi e a vantaggio de’ propri figliuoli, la lunga e dolorosa avventura nella quale erano incorsi, la versione degli eventi proposta in pulpito dal nostro buon prete e dalle sue accolite ebbe la facoltà di assurgere a quell’ufficialità bastevole a cacciar sotto banco ogni altra relativa notizia.

Ora però don Abbondio malediceva in cuor suo l’eccessiva generosità con la quale aveva trattato se medesimo in que’ racconti. La santità, diceva tra sé, l’è senz’altro una gran bella cosa, finché non procuri fastidi e incomodi. Perché così va il mondo: per un individuo buono e ammodo ve n’è a torme che subito n’approfittano, facendo di quell’individuo il bersaglio delle loro incessanti richieste. «E adesso che m’occorrerà?», si domandava il sant’uomo mentre, illucchettato il velocifero, s’avviava, stropicciandosi nervosamente le mani, dietro il prefetto.

E gli tornava alla mente l’unico colloquio avuto con il cardinale Federigo: il quale, per contrastare una certa sua per dir così ritrosìa dinanzi al bene che nient’altro dimanda che d’esser compiuto, gli aveva portato ad esempio nientemeno che lo stesso Cristo. Ma il buon prete, abbassato il capo più ancora di quanto già non fosse, con voce fioca ma perfettamente udibile gli aveva risposto: «Dite bene, voi. Ma che son forse Cristo, io?».

Questo dovrebbe pensare l’uomo prudente, rimuginava tra sé, mentre il prefetto già lo introduceva nella casa del dolore. Allora sì, scanserebbe tutti i guai!

Nella grande stanza due candelabri illuminavano un gruppo di figure sedute molte delle quali risultavano però in ombra a causa de’ tre catafalchi sui quali eran stati posti i cadaveri d’una donna anziana, d’una assai più giovane e l’ultima, di gran lunga la più dolorosa a vedersi, d’un bambino.

Molti singhiozzavano. L’ombre danzavan sopra le teste come se financo gli antenati s’unissero alla sofferenza de’ vivi, per dar loro conforto alle note d’un muto canto.

Una delle figure in ombra si levò all’impiedi. Era un vecchio piuttosto male in arnese, palesemente distrutto dal dolore. Rasciugatisi come poteva gli occhi con il polsino della camicia, il vecchio s’avvicinò e porse la mano a don Abbondio il quale, prima di dargli la propria, lasciando quella a mezz’aria, s’informò presso l’autorità costituita, vale a dire il prefetto, su chi fosse costui.

«È il padrone di questa disgraziatissima casa» disse il prefetto, trattenendo a stento, a sua volta, le lagrime. «E quelli che vedete qui stesi sono il nipotino, la figliuola e la moglie di lui, uccisi per mano purtroppo ancora sconosciuta».

«Ah, comprendo» disse don Abbondio, risolvendosi finalmente a porgere la propria mano a quella dell’uomo che, presala, la strinse con vigore.

Tanto vigore che poco mancò che il nostro sant’uomo cacciasse un ahi.

Uno per uno, il vecchio indicò a don Abbondio i presenti. Tra questi ve n’eran due che attiraron subito la sua attenzione. Erano un uomo e una donna, non più giovani ma non ancora avviati verso la vecchiaia, ambedue di solida complessione. Lei appariva torva in viso, più adirata che addolorata, e quando il vecchio le presentò don Abbondio ella, senza distogliere lo sguardo dal punto ov’era fisso, allungò furtivamente la mano e quasi non toccò nemmeno quella che don Abbondio le porgeva. Al contrario di lei, l’uomo si slanciò verso la mano del prete e gliela strinse avviluppandola tutta ma senza forza. Sul suo volto stazionava un’espressione che si sarebbe potuta dire tanto beata quanto ebete (la differenza tra le due è, come il lettore ben sa, quistion d’accenti) ma era comunque sorridente.

Mai il prete avrebbe confessato, nemmeno a se medesimo, che il fare arrogante di lui come di lei gli metteva un gran timore, e che il timore, e null’altro che quello, indirizzava, quasi a sua insaputa, tutte le sue considerazioni.

Ecco due persone come si deve, pensò don Abbondio. Il popolo sembra provar piacere nel dare sfoggio del proprio dolore. Vogliamo finire come diceva quel tale?, disse, con riferimento a un superiore di cui aveva scordato il nome che, di ritorno da un viaggio all’estero, vale a dire in Sicilia, gli aveva descritto il costume delle così dette prefiche.

La dignità traspariva, viceversa, sul volto di queste due persone: lei, così composta e silenziosa nel proprio dolore; lui sorridente e gentile, come chi veramente conosca le regole dell’ospitalità. Ambedue da additare a modello di discrezione.

Invece questo vecchio guardatelo, seguitava tra sé il buon prete, come si dà da fare, da vero cerimoniere, né ha mancato, a dispetto della disgrazia toccatagli, di mettere la camicia bianca pulita, nemmeno fosse il dì di Pasqua.

Chissà questo povero vecchio, che aveva messo la camicia nuova per rispetto di lui e della sua annunziata santità, come si sarebbe sentito se avesse potuto leggere i pensieri di don Abbondio, che per sua fortuna aveva la testa più chiusa d’una cassaforte e il viso tra i meno adatti a svelar sentimenti.

D’altra parte, come ognun sa, la guisa migliore di dissimulare i propri pensieri ovver sentimenti, l’è quella di non pensare né sentire affatto.

Ma, se il pensiero non era il punto forte del prete, viceversa la capacità d’individuare immediatamente quali fossero, anche dentro una folla, i deboli da colpire e i forti da riverire, era in lui qualità rara.
Fu recitato, sotto la guida di lui, il rosario, cui seguì una biascicata formula in latino, coronata dalla benedizione, cui tutti risposero segnandosi: anche i due personaggi dignitosi che tanto s’erano incisi nella sua immaginazione.

Alla fine, don Abbondio s’intrattenne a lungo soprattutto col prefetto, lodando la bella cittadina di Erba e dimandandogli notizie or di questo or di quel suo conoscente. Gli dimandò anche d’una certa locanda - dove l’aveva condotto anni addietro il decano di Lecco, famosa al tempo per la delicatezza del suo brodo di pollo e per la gradevolezza del suo vino, che l’oste acquistava dal proprio fratello in val Caleppio - mostrando vivo rammarico allorché il prefetto l’informò che sia l’oste che la moglie eran morti al tempo della peste. E non avrebbe fatto parola del caso che l’aveva richiamato lì (ritenendo egli forse sufficiente l’ufficio del rosario, ch’è ad ogni buon conto cosa degnissima) se il vecchio, dopo aver tentato di richiamare la sua attenzione, non l’avesse tirato per un braccio.

«Insomma, che volete?».

«Padre, desidero parlarvi».

Il prete, temendo di dover sostenere un colloquio per lui penoso, cercò, non potendolo evitare, di limitarne perlomeno i possibili effetti negativi.

«Son pronto» disse, facendo intendere il contrario.

«Seguitemi, vi prego» disse il vecchio. E fece per incamminarsi verso una porta che fino a quel momento era sempre rimasta chiusa.

«Che, che» disse don Abbondio, senza muoversi «possiamo parlar qui, non vi pare?».

«Io volevo parlar da solo a solo».

«E via! Voi mi volete dir dunque che v’han segreti tra voi e il signor prefetto?».

Ma quel che non potevano ottenere le parole, ottennero infine gli occhi straziati dell’uomo, alla cui supplica il buon prete non ebbe argomenti da opporre. Questo però sortì l’effetto di incattivirne l’animo, così che, quando i due si trovarono da soli nella piccola cucina, don Abbondio si sentì nel diritto di fare la voce grossa.

«Allora? Via, signore, veniamo al dunque senza farmi perdere dell’altro tempo».

«Caro padre, voi vi trovate dinanzi un uomo disperato. La mia vita è come un sacco vuoto, le forze mi mancano. Da tant’anni sono al mondo» aggiunse, mostrandogli i capelli bianchi e ormai radi «e oggi a me pare d’esservi giunto solamente ieri, e per errore. E io non dormo più la notte, dimandandomi se l’è così che il Signore vuole ch’io mi congedi da questa vita».

«Che volete che vi dica, buon uomo. Ci vuol fede e tanta pazienza. Altro non saprei dirvi davvero».

«Il fatto l’è» soggiunse quello «ch’io so quasi per certo chi sono gli assassini de’ miei famigliari... Oh, nipotino mio adorato!».

Represso in tutta fretta il pianto ch’era tornato a sgorgarli copioso al pensiero del piccolo nipote, il vecchio si volse verso il vano della porta, di dove si scorgeva un crocchio, appena fuori dall’uscio di casa, aperto a sua volta. E indicò col capo i due che si trovavano in disparte, silenziosi, l’uomo e la donna che così buona impressione avevan destato in lui.

«Ma che dite!», esclamò allora don Abbondio. «Che son queste insinuazioni? Posso comprendere che il dolore v’abbia scosso, ma giungere a tanta perfidia! E poi non li vedete? Anche un cieco capirebbe che, di tutti i presenti, eran proprio essi i più rispettabili e ammodo. E sentiamo: con quali prove sostenere il vostro... dire?».
«Da molto tempo ci minacciavano» il prete, intanto, agitava la mano come a dir via, via, contàtene di migliori «dicendo che li molestavamo con i nostri rumori, mentre vi posso assicurare...».

«Di che mi venite a parlare? Di che m’assicurate? Un uomo qual io sono sa riconoscere chi si è come si deve. Fareste meglio a seppellire questi vostri sospetti e a pregare Iddio per l’anima vostra».

E, così detto, senza voler dare ulteriore ascolto alle deboli suppliche del poveretto, se ne andò via sicuro. Il parroco di Erba lo attendeva con la tavola ormai apparecchiata e la camera degli ospiti di riguardo già disposta per la notte, con gli scaldaletto - che in taluni luoghi di Lombardia vengon detti scherzosamente monache - già in funzione. Bisognava poi aggiunger aria alle gomme del biciclo, se no come l’avrebbe potuto reggere, all’indomani, tra Pusiano e Annone, tra Civate e Malgrate?

Vita grama quella del prete. Il santo poi!

E, con

quest’ultimi pensieri ben fissi in testa a cacciarne ogni altro, don Abbondio si congedò dal prefetto e, passando davanti ai due personaggi torvi, ne richiamò l’attenzione, inchianandosi persino un poco, in segno di profonda stima.

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