Quei «vitelloni» alla milanese

Noi siamo quelli che sono venuti dopo, quelli ai quali hanno raccontato che Mario Pannunzio era un grande, oltre che un gentiluomo, che Arrigo Benedetti era un gentiluomo, oltre che un grande e Italo Pietra era un maestro di giornalismo. Noi siamo quelli che sono venuti dopo, quelli della generazione successiva, quelli che Pannunzio, Benedetti e Pietra non li hanno conosciuti perché il giornalista si tendeva a farlo dopo la laurea. Se arrivava. E tra loro qualcuno era in pensione, qualcun altro addirittura era pure morto. Era il tempo dell’edonismo reaganiano. Eppure quelle voci lontane sempre presenti ci raccontavano gli anni '50, quelli del primo dopoguerra, della Dc e della provincia che guarda alla metropoli come una realtà sognata. Gli anni dei socialisti, sorrisi e coltelli con i comunisti. Gli anni in cui qualche giunta locale, anzi localissima, faceva prove tecniche di giunte rosse. Poche e in punta di piedi. Ma rosse. Gli anni in cui i treni funzionavano ancora e viaggiare da Voghera a Milano era un trasferimento, non un’odissea. Gli anni in cui i giovani studiavano e lavoravano, magari collaborando con un giornale. Nel frattempo davano gli esami se ci riuscivano, dopo una serata all’osteria, una boccia di rosso e un salame fatto a fettine. E prima di chiudere la serata, un salto al bordello. Tutta qui la trasgressione: discoteche, droga e decibel erano mali sconosciuti. La peggiore delle minacce era lo scolo.
I ragazzi di allora sono diventati direttori, politici, scrittori, perfino attivisti di quella sinistra che nel '68 e dintorni fece strapazzi. Vittorio Emiliani, che in vita sua ha fatto l’inviato al Giorno e ha diretto per sette anni il Messaggero, in quei mitici '50-'60 era un giovane, sbarcato all’università e approdato in un’altra città. Abitava a Voghera, perché lì avevano trasferito papà segretario comunale, ma studiava e lavorava a Milano. E con gli occhi di un ventenne ha raccontato la dolce vita sotto la Madonnina. E ha diviso quel «mondo» in vitelloni e giacobini, il binomio che dà il titolo al suo libro (Vitelloni e giacobini, Donzelli editore, pp.282, euro 16) abitato da quei fantasmi irraggiungibili dei quali, a noi che siamo venuti dopo, hanno raccontato che sì, Pannunzio, Benedetti e Pietra erano dei grandi. Soprattutto quelli di noi che hanno seguito quelle orme. E hanno fatto i giornalisti.
Emiliani ci era arrivato dalla provincia, lui che era nato a Predappio, stesso paese del Duce, aveva vissuto a Bologna e ora si ritrovava nella Bassa, nebbiosa e avvolgente. E tra Voghera e Milano ballava come studente di legge, alle prese con codici, raramente graditi, e Procedura civile col «Gingio», al secolo Virginio Rognoni, futuro ministro dell’Interno che, magnanimo, l’esame glielo abbuonò con la promessa: avvocato mai. Lui, Emiliani, giurò: «Faccio già il giornalista» e si rituffò nelle inchieste da mettere giù sul tamburo, come si dice in gergo. Cioè subito. Gli era bastata una telefonata per incontrare una giornalista della Rizzoli, Camilla Cederna, che gli aveva aperto gli occhi. Lo aveva consigliato, perfino «adottato». Storie di ieri, storie lontane anni luce, storie oggi impossibili in un mondo di call center e segreterie telefoniche.
E sempre nella Bassa aveva conosciuto Italo Pietra quando non era ancora Italo Pietra. Quando aveva archiviato la Resistenza e aveva riposto i panni di partigiano dell’Oltrepò, là dove era nato e dove poi morì. Grazie a lui arrivò al Giorno e vi rimase quando il suo pigmalione se ne andò. Era il '72. A fargliela pagare furono i dorotei e la destra dc dopo le elezioni. E, qualche anno dopo, Pietra se lo sarebbe portato dietro anche al Messaggero, quel giovane. Dove il vecchio mentore sarebbe rimasto come editorialista quando toccò a Emiliani diventare direttore. Erano legami solidi quelli che nascevano nelle brume della Bassa.
Non tutti avevano preso le stesse strade, però. A Voghera bazzicava anche l’Arbasino, proprio lui, l’Alberto dell’Anonimo lombardo e dei Fratelli d'Italia che laggiù, nel '30, ci era nato. Era il più grande, l’irraggiungibile. Quello che si era presentato a tutti, da Roberto Longhi ad Anna Banti che poi era sua moglie, da Montale a Carlo Bo. Voleva diventare qualcuno, l’Alberto. Pardon il Nino Alberto. E c’era suo cugino, l’Ambrogio. Compagni di merende e di merendine. Di avventure e di giornali stampati così, quasi clandestinamente. Ma con le ambizioni dei grandi. L’Ambrogio lo diresse, il Cittadino, ma poi cambiò strada e fece l’avvocato. Eppure quel settimanale lanciava politici in erba come quell’Italo Betto, per tutti il «Capo», nato socialdemocratico, passato al Pci e lì immolato quando tentò il grande salto a Palazzo Madama e si ritrovò per sempre confinato a sindaco nel Vogherese.
Era una redazione fremente, pulsante, rutilante. E senza complessi di inferiorità. C’era il Tarozzi che si fece le ossa, poi sbarcò al Giorno ma conquistò la tranquillità solo quando i sindaci Aniasi e Tognoli fecero di lui uno dello staff di Palazzo Marino. C’era il Turani che dal Psiup finì alla corte di re Eugenio a Repubblica e c’era Emiliani che rifiutò l’assunzione a Benedetti e rinunciò all’Espresso, per non tradire l’amico Pietra, che gli promise di mandarlo in Economia. Era facile lavorare a Milano, allora. Era la stagione delle inchieste: quelle sul lavoro e sulle baracche. Le stesse di sempre: cultura, case che non bastano mai, occupazione alle prese con il decentramento delle fabbriche, caro affitti e immigrazione. Il racconto di una nazione che da mezzo secolo continua a crescere ma non è ancora diventata maggiorenne. E giornali e giornalisti sono sempre lì.
Ma era la Milano dove il Psi, dilaniato fra la sinistra di Cicchitto e De Michelis e i radicali di Jannuzzi e Pannella avevano stritolato quel Bettino Craxi, universitario talento emergente e pupillo di Nenni. Trombatissimo, scaraventato a guidare la sezione di Sesto, la Stalingrado d’Italia dove spadroneggiava il Pci di Cossutta. L’avevano fatto giocare a testa o croce con la carriera. Vinci o muori. La politica, allora non era per tutti. E tra i socialisti campare era dura assai. Andò come sappiamo.
Non furono solo lacrime, però. Quella di ieri era una provincia godereccia e un po' sciupona, una metropoli «che ti tiene fra le sue tette un po' mamma, un po' porca com’è» e i vitelloni caserecci la girano in macchina con il solito autista e solito amico, l’Italo, il «Capo», l’unico con la patente. C’è la cabina telefonica, sempre la stessa, «ufficio» improvvisato e i gettoni che vanno giù tintinnando come monetine. È la cabina dei ricordi quella dalla quale proporre articoli al Giorno, prendere appuntamenti con il Vittorini fuoriuscito dal Pci. E dove Emiliani si accordò con Benedetti, per andare a Roma a comunicargli il suo no. «Ed è venuto qui per rinunciare all’assunzione?» chiese attonito il direttore. «Sì - rispose l’altro - mi dispiaceva dirglielo per telefono». Altro stile, altri tempi. Un’altra Milano. E forse altri cuori. Quelli che battevano in auto e si scontravano con le ragazze che non ci stavano perché per starci dovevi fidanzarti ufficialmente e allora l’alternativa era il casino. Fin quando è rimasto. Poi anche i costumi hanno cominciato a cambiare.

E poteva accadere che il sesso facesse prodigi, come il furbastro del gruppo che riuscì a rimorchiare una tipa, fingendosi muto. Ma riuscì a mantenere il segreto davvero per poco, al primo orgasmo riacquistò la parola e, davanti al viso meravigliato di lei, cominciò a saltellarle attorno gridando «Miracolo, miracolo!».

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