Quel lutto nazionale consumato in fretta

Ieri è mancato quel fremito d'angoscia percepito in passato per altre tragedie italiane

Il lutto abruzzese - con quei volti straziati e insieme composti chini sulle bare allineate - è stato esemplare: per la profondità dei sentimenti, per la dignità del dolore, per la spontaneità rattenuta delle lacrime. Una grande lezione popolare a chi, come me, ha seguito la cerimonia sul teleschermo, e anche alle autorità presenti. Voglio tuttavia correre il rischio di sembrare un guastafeste in questa ora solenne osservando che il lutto nazionale non mi è parso all’altezza di quello abruzzese. Naturalmente non è mancata - non poteva - l’ufficialità d’un cordoglio che doveva accomunare l’intero Paese. Ma ho avuto l’impressione che in molti luoghi la pratica lutto sia stata sbrigata in fretta, più per necessità rituale che per slancio corale. Giù le saracinesche dei negozi, ma per un attimino, come usa dire nel gergo di oggi. Abbassate e quasi subito rialzate le saracinesche, una brevissima pausa e non - come a mio avviso sarebbe stato opportuno - una vera interruzione d’ogni attività commerciale, o d’intrattenimento e di svago.

Può darsi che la memoria - nella quale il passato è sempre rivestito di connotazioni nostalgiche - mi inganni. Ho tuttavia netto il ricordo d’altri lutti per altre tragedie che hanno emozionato il Paese quanto questa. Superga e la distruzione del grande Torino, e il Vajont, e il Belice, e il Friuli. O la morte di personaggi famosi e molto amati, Fausto Coppi e Mario Riva ad esempio. Nei casi in cui fu proclamato il lutto nazionale l’Italia davvero si adeguò ad esso. Fu possibile constatare visivamente il fremito d’angoscia che la percorse. Posso dire, senza destare indignazione, che quel fremito d’angoscia ieri è mancato, o così mi è parso?

Lo so, ci saranno ancora tanti minuti programmati di silenzio e di raccoglimento, tante iniziative generose per portare aiuto alle famiglie colpite. Non di questo deploro l’assenza, perché sarei ingiusto: ma di una commozione dell’Italia intera che superasse di molto i confini dell’Abruzzo: e che, se c’è stata - e ritengo ci sia stata - è rimasta nel chiuso delle case e dei cuori. Non ha raggiunto i ristoranti. Non ha raggiunto le vetrine. Sì, la vita - come lo show - deve continuare, guai a piangersi addosso. Ma forse c’è stato qualche egoismo di troppo. Voglio tentare qui anche una spiegazione di questa - non dico insensibilità - ma noncuranza. Siamo forse troppo abituati a vivere questi avvenimenti - siano essi tragici o celebrativi - tramite la televisione.

Ritengo che per tanti, per troppi, le emozioni e le reazioni si scaricano nel teleschermo, quasi che tutto vi si generi e vi si concluda. Non è così, lo sappiamo tutti. Si vive, si soffre e si muore fuori da quella realtà virtuale. Nella realtà vera. Ricordiamocelo.

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