Per raccontare l’orrore e il dolore di Scampia, uno dei troppi luoghi devastati dal cemento, dal sangue,dall’indifferenza della sinistra politica napoletana, non serve scomodare San Tommaso, l’apostolo di Cristo che per credere voleva toccare. Basta recarsi in libreria e chiedere delle memorie di padre Aniello Manganiello, parroco del quartiere simbolo dello spaccio e dei morti ammazzati all’ombra delle Vele, set scontato del film Gomorra ispirato al libro di Roberto Saviano. Già, Saviano. «Uno che non ha abitato nemmeno per un giorno nel quartiere né vi ha sostato a lungo, lo avrei saputo, ci saremmo incontrati, me ne avrebbero parlato i miei parrocchiani o i conoscenti e non c’è persona da quelle parti che io non conosca », spiega don Aniello nell’incipit del sedicesimo capitolo del libro Gesù è più forte della Camorra (edito da Rizzoli, 17 euro) scritto insieme al giornalista Andrea Manzi.
Proprio su Roberto Saviano, il tuttologo che senza aver mai messo piede a Scampia spara a zero sui residenti che sparano davvero, verte una parte significativa di questo crudo pamphlet girato nelle viscere del rione maledetto dove oltre a Roberto anche la polizia, e Cristo, non entrano. Qui il sacerdote scomodo ha trascorso sedici anni (un anno fa tra le proteste generali è stato trasferito a Roma) senza mai chinare il capo, tra attentati, minacce, ritorsioni, furti e oltraggi in sacrestia, fedeli assassinati sul sagrato, conversioni di criminali, drogati e moribondi di Aids coccolati come fossero figli suoi. Ha portato la Croce per radicare un po’ di speranza in peccatori irriducibili. Leggere tutte d’un fiato queste 242 pagine serve a capire la differenza tra chi rischia davvero e chi per Mondadori. L’aver osato criticare in tv l’epopea di Gomorra («Saviano ha gettato fango su Scampia e su Napoli, dandone al mondo un’immagine negativa. Un’operazione da cassetta che non ha avuto rispetto per nessuno degli 80mila abitanti») gli è costata un’imputazione di lesa maestà da Massimo Giletti, Klaus Davi e quant’altri presenti in trasmissione. Poco esperto dei tempi televisivi, il Nostro voleva solo far capire che la lotta alla mafia non dev’essere ideologica ma concreta. Ci torna nel libro: «Bisogna sporcarsi le mani, entrare nel degrado, portare via chi è rimasto prigioniero. Se ci sono le fiamme in un cinema zeppo di persone, cerchi di mettere in salvo gli spettatori oppure organizzi un convegno sulla sicurezza nelle sale?». La risposta non è scontata, posto che d’anticamorra abbondano i meeting, i libri, gli articoli, le fiction.
«È una funzione importante la cultura, che non voglio minimizzare. Ovviamente questi messaggi possono però scadere nell’enfasi, nell’autoreferenzialità, nell’iperpresenzialismo di chi li pronuncia (…). Tali attività, sostenute da una funzione per così dire oracolare, non salvano alcuna vita». Il parroco mette in guardia anche dalle manifestazioni contro i clan «che non raggiungono né il cuore né la mente dei malavitosi che spesso non hanno proprio gli strumenti per capire». Lui, i boss, li ha affrontati di petto. Ci ha parlato. Li ha ascoltati. Una missione apostolica avara di successi, comunque utile perché «solo quando si prospetta loro una nuova dimensione esistenziale è possibile rinsavirli». Quando assassini e spacciatori gli hanno chiesto un futuro diverso per i loro figli, «io non ho mai mandato quei ragazzi ai cortei anticamorra, con una bandiera in mano, un paio di slogan e tanta voglia di urlare. Perché io devo trovare soluzioni, i soldi per farli mangiare, per impedire che le ragazze si sentano obbligate ad abortire, per comprare i pannolini e pagare le bollette», magari attingendo al sacchetto delle offerte.
«Se mi occupo della pancia vuota della mia gente – insiste don Aniello - vorrei poter dire un giorno a Saviano: come faccio a parlare di ideali, di moralità e non violenza? Potrei anche farlo ma non mi crederebbero. Questa è la mia anticamorra, quella delle opere, del contagio dell’esempio, dell’intervento concreto.Un’anticamorra discreta che ha più effetto di una grande campagna mediatica perché nel suo Dna c’è il potere, seduttivo, della verità». Occorre dunque lavorare «lontano dalla ribalte, dai pulpiti e dalle inconcludenti ritualità accademiche che sommano il niente al nulla aumentando la redditività della moda culturale e il prestigio dei suoi simbolici protagonisti ». A dirla tutta il prete di Scampia ci ha provato a incontrare il guru di Repubblica . Erano entrambi a un convegno in Abruzzo, nel quale Saviano, come sempre,incarnava lafigura dell’ospite d’onore. Prese il premio e scappo’ via. «Ormai la sua presenza è diventata talmente simbolica da non appartenere più al piano della realtà. Le sue sono apparizioni fugacissime. Ho chiesto a un organizzatore di poterlo incontrare, mi ha risposto con un sorriso beffardo: “Ma lo sai di chi stiamo parlando?” ». Nel tentativo di far parlare i fatti invece delle parole, il Salvatore in clergyman le ha tentate tutte per convincere le amministrazioni rosse «ad avere la stessa attenzione e la stessa cura riservata a piazza Plebiscito o al centro storico anche per le aree periferiche ».
Così, un bel giorno, lui e altri quattro preti di frontiera decisero di ribellarsi «alle modalità di gestione del Comune da parte del sindaco Antonio Bassolino, concentrato unicamente sulla cittàvetrina e sul suo tanto celebrato rinascimento napoletano ». Attaccarono frontalmente quella politica «che gli consentiva di far veicolare al mondo, grazie a un’informazione piegata ai suoi voleri, l’immagine artificiale di una città in salute e senza problemi. Un vero e proprio contrabbando ideologico ». Stilarono un documento durissimo. Poco abituato alle critiche, Bassolino corse a incontrare i religiosi, fece promesse a cui non dette seguito, forse perché disturbato dall’affronto di un altro ecclesiastico, don Franco Esposito, che gli chiese di chiedere scusa ai napoletani per il degrado e l’assenza del Comune. «Non mi sento responsabile di niente e quindi non devo chiedere scusa a nessuno», ribattè Bassolino. Che quando lesse sui giornali delle critiche dei religiosi alzò il telefono e «mi apostrofò dicendomi che ero un emerito mascalzone. Non feci in tempo a ribattere perché dopo le contumelie, attaccò». Per certi versi, anni dopo, gli andò peggio con Rosa Russo Iervolino. «Non s’è mai degnata di incontrarci, nonostante le nostre ripetute richieste e le denunce anche pubbliche sui ritardi comunali ».
Poi successe che il religioso fu invitato da An a dire la sua sulle collusioni tra politica e criminalità. L’anticamorra di professione lo etichettò come «il prete di destra » e la Iervolino annunciò querela aggiungendo «che i soldi del risarcimento del danno che avrebbe certamente ottenuto da me li avrebbe girati a un altro dei parroci di Scampia. Un modo sottile per metterci contro, per impedire che si consolidasse il fronte anticamorra », chiosa il prete. La sindachessa venne però attaccata trasversalmente.
Per uscire dall’ impasse fu costretta a un gesto di pace: «Inviò una dichiarazione ai giornali assicurando che mi avrebbe invitato a palazzo San Giacomo per un incontro chiarificatore». Sono passati più di quattro anni. Don Aniello aspetta ancora.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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