Quella guarigione nascosta in una formula

«L’idrografo» di Allard Schröder: l’odissea di un aristocratico prussiano che, salvato da un male oscuro dai bagni di mare, s’imbarca alla ricerca della legge del moto ondoso

Basta dare un’occhiata al bagaglio di un viaggiatore per farsi un’idea di quel che si aspetta di trovare, quel che mira e quel che fugge. Sul veliero Posen, il quattro alberi che salpò da Amburgo il 13 aprile 1913 per attraversare la Manica due giorni dopo e puntare vento in poppa verso Sud, si era imbarcato il professor Totleben, antichista di Halle, sottobraccio quel libro arancione stampato in caratteri greci nel quale - steso sul ponte - si sprofondava per ore scivolando sulle profondità degli abissi.
Anche Amilcar Moser, commerciante triestino di salnitro, aveva con sé un volume inseparabile: fin troppo riconoscibile però dalla rilegatura, il formato, i colori di copertina del Baedeker del quale osservava scrupolosamente le prescrizioni facendo scalo via via a Rio De Janeiro piuttosto che a Lisbona. A Lisbona, salendo a bordo in gran segreto, aveva fatto stivare un gigantesco baule il passeggero che, attorno alla sigla «M» aveva appiccicato le etichette di tutte le sue tappe precedenti: Città del Capo, Buenos Aires, Batavia, Macao... denominazioni d’origine degli ingredienti protetti nel cassone di Asta Maris ed estratti sottocoperta dall’avventuriera olandese dedita alla cucina dei sogni e all’esplorazione dei fondali delle bottiglie di rum.
Un baule - ricolmo di gingilli e bilancini, alambicchi e regoli di ottone, meravigliosi come le fiaschette e le pipe della fumatrice d’oppio - aveva con sé anche il conte Franz von Karsch-Kurwitz. Ma il nobiluomo non era un sognatore né un bevitore né un prestigiatore. È lui L’idrografo (Iperborea, pagg. 202, euro 14) cui lo scrittore olandese Allard Schröder ha assegnato, con una cabina di prima classe sul vascello transatlantico, il compito di misurare le onde dell’oceano e riassumere in una formula matematica l’inarrestabile fluire di quel mare che l’aveva guarito da un’oscura malattia avuta nell’infanzia.
Schröder, premiato con l’AKO 2002 per questo romanzo, si fa beffe del suo eroe. Imbarcandolo sul Posen, trascina in alto mare il rampollo sradicato da un antico casato di Pomerania e, gettandogli il salvagente di una scienza, lo tiene ancorato a una boa saldissima da cui verificare «come, ondeggiando placidamente, i suoi “fatti” perdevano forma non appena ne prendevano una». Sospingendolo verso il miraggio di un’avventura, fa di lui, personaggio niente affatto tragico - «non ne avrebbe mai avuto il talento» - e tantomeno ironico - «come molti della sua epoca» - l’indimenticabile figura principe di un libro «dolorosamente inafferrabile» (lo dice la sua traduttrice, Elisabetta Svaluto Moreolo, prendendolo però con esattezza infallibile per la prosa) quanto irresistibilmente divertente.
Procede veleggiando molto oltre gli scogli procellosi della tragedia e i mulinelli dispettosi dell’ironia il romanzo che, scritto l’altroieri (tra il 1999 e il 2002), è ambientato alla vigilia della Grande Guerra, nello stesso anno in cui Hans Castorp, puntando verso Davos, ascendeva alla sua Montagna incantata. Gira al largo da massicci e macigni e, oltre l’Equatore e il Tropico del Capricorno, alla larga dalle nubi che sul Vecchio Continente si stanno addensando nell’altro emisfero. Naviga a vele spiegate a pelo d’acqua, in «un’amabile atmosfera di superficialità» dove, più delle ammalianti lontananze, le spiagge tropicali, l’alternanza di creste di spuma, mari glaciali e calme equatoriali appassiona il costante gioco all’inganno del giovane idrografo: «un uomo di 32 anni i cui ricordi si rivelavano più interessanti delle prospettive».
Franz cerca un antidoto «al ristagno della sua vita» nella partenza e, in balia delle correnti, finisce «in balia delle proprie incertezze». Cerca la nuda formula per il moto irriducibile del mare e finisce per ridurlo alla spogliata monotonia della sua ennui: la noia, la «corruzione esotica» che ai tropici fiacca le forze e la volontà, ma è identica «nelle silenziose sale di un istituto» del Nord. Cerca riparo nella fuga e finisce col «fluire fuori da se stesso».
Fluisce nel rispetto delle leggi delle onde, però, che, su una scala da zero a dieci, non toccano mai il limite della calma piatta. Ad agitare le acque attorno a lui pensano i personaggi con cui, tra Amburgo e Valparaiso, è costretto a stare nella stessa barca: una forzata compagnia di attori di cui i bagagli sembrano i costumi di scena e i nomi le maschere grottesche che il beffardo narratore, battuta su battuta fa cadere.
Totleben: letteralmente «vita morta», come le lingue studiate dal tetro classicista coinvolto nel delitto di un giovane sodomita («Niente di nuovo sotto il sole, diceva senza inventiva»). Asta Maris, quasi un’Astarte, l’Afrodite degli assiri: Venere marina che ha il fascino davvero eccezionale «dell’unica donna nel raggio di centinaia di miglia» e i piedi sporchi di una cenerentola prima (o dopo) l’incantesimo.

Il venditore di salnitro, borghese sogghignante, mercante supponente che, inamovibile dalle sue convinzioni politiche e estetiche, sputa sentenze rimasticate dalle gazzette commerciali o dal Baedeker. Di tutti il più credibile resta l’idrografo, malinconico eroe e smagato scienziato che ci comunica le sue conoscenze e le sue certezze in un messaggio scritto sull’acqua.

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