Quell'assicurazione sulla vita chiamata desiderio

Il desiderio è il vero imperativo categorico della nostra epoca. Chi pensa che la società contemporanea sia governata sempre e soltanto dall'idea di «comprare» (la classica e un po' trita critica alla società dei consumi: compro, dunque sono), non ha fatto i conti con la forza straordinaria del desiderio. Chi non desidera, è perché o ha desiderato troppo in passato (ecco il senso della vecchiaia), o non ha saputo far scattare nella propria mente quel formidabile pulsante che lo avvicina ai suoi simili. Noi desideriamo sempre: una vita migliore, una promozione, un posto nella società, una bella casa, un viaggio; e anche, certamente, una ragazza, una donna, un uomo. Ora, mentre scrivo, milioni e milioni di umani stanno desiderando qualcosa o qualcuno. Chi è estraneo, o si ritiene tale, all'idea di «desiderare», è fatalmente estraneo alla stessa forza insita nell'essere umano, oltre che allo spirito di un'epoca, come quella attuale, in cui i desideri sono, se non proprio alla portata di chiunque, certo dei più. Pensiamo a quel curioso fenomeno che sono i saldi: non sono forse la quintessenza stessa dell'idea di una società in cui il desiderio si è «democratizzato», adattandosi alle esigenze, alle tasche ai bisogni di tutti? I saldi sono, prima ancora che un'occasione di spesa più equilibrata e popolare, anche un simbolo: di un'epoca che ha democratizzato il desiderio, lo ha reso accessibile a tutti. Ma il desiderio è sempre destinato a scontrarsi anche con il suo contrario: l'appagamento, la soddisfazione di aver ottenuto ciò che si desiderava, e, spesso, l'abitudine, la stanchezza, la noia. A volte, la delusione. È lo scontro inevitabile tra l'astrattezza di ciò che si è desiderato nella propria mente e la realtà: lo stesso che c'è tra le grandi utopie sognate (una società giusta, un ordine sociale perfetto, ecc.) e la banalità, la difficoltà, spesso anche l'orrore delle utopie realizzate. Questo vale per un amore (anche di un amore ardentemente agognato, una volta che lo si sia appagato, ci si può alle volte, e purtroppo più spesso di quel che vorremmo, stancare), ma anche per un abito, un paio di occhiali, un'auto, una moto, una bella casa, un terrazzo o un giardino. Non è sempre così, sia chiaro: esistono innamoramenti agognati e sognati, che si traducono poi in amori duraturi.

Esistono case desiderate, e poi amate perché ben vissute. Esistono abiti, giacche, camicie che non ci si stancherebbe mai di portare. Esistono, cioè, desideri realmente e felicemente appagati, grazie alla scoperta di quello che Freud chiamava il «principio di realtà»: la consapevolezza, cioè, che tra il desiderio agognato e quello realizzato c'è sempre un abisso, ma è un abisso che noi, se siamo abbastanza maturi, possiamo trasformare in un'occasione di rilancio. Il desiderio è una contraddizione vivente: nel momento in cui è stato appagato, rischia sempre di morire, perché il suo appagamento, la sua realizzazione, confligge con la sua natura mentale, astratta, ideale. Eppure, noi non possiamo far altro che desiderare sempre la sua realizzazione.

Come uscirne? Rifiutando il desiderio stesso, perché ne conosciamo già in anticipo l'inutilità, la sua futura trasformazione in abitudine e forse, presto o tardi, in noia? Mai e poi mai. Piuttosto, nel rilanciarlo e alimentarlo sempre. In amore, un desiderio non sarà mai veramente appagato, se non siamo noi stessi, colpevolmente, a trasformarlo in routine. Così per le cose materiali: ti compri una giacca che hai visto e desiderato, e cercherai di farla rivivere con te.

La vivrai, la amerai, la stropiccerai, la consumerai: e quando sarà troppo lisa o rovinata per essere ancora indossata, desidererai ritrovarla, per ricomprarla uguale a quando l'avevi acquistata la prima volta: per far rivivere, appunto, il desiderio originario che te l'aveva fatta amare la prima volta.

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