Rifiuta 300mila euro per far ricerca «L’embrione ne sa molto più di noi»

Trovo davvero imperdonabile che questa intervista sia stata raccolta il giorno della finale dei Mondiali. Non tanto per me, che non ho mai messo piede in uno stadio, quanto per il mio interlocutore, che vanta 16 presenze nella nazionale azzurra (trattenete il vostro sdegno: di pallavolo). Del resto, da quando ha lasciato lo sport professionistico per dedicarsi alla ricerca scientifica sugli embrioni, Leonardo Morsut dice di non disporre d’un solo minuto libero durante la settimana. Mi ha perciò convocato domenica scorsa a Mortise, quartiere suburbano di Padova, dove vive con il padre Paolo, insegnante di lettere in un istituto tecnico, e la madre Rosanna, ragioniera pensionata, in attesa di sposarsi («o di andare ad abitare») con Sabina, laureata in lingue specializzanda in storia dell’arte, sua fidanzata da sette anni. Il fratello minore Francesco gioca in A2 con la Sira Ancona ed è già coniugato: al suo matrimonio l’eclettico Leo suonava l’organo.
Scende dal condominio popolare in calzoncini corti e ciabatte da spiaggia. A vederlo fa impressione: un metro e 99. La barba nera e folta è il naturale completamento della chioma riccia e scomposta. Inturbantato, e senza gli occhialetti da intellettuale, sarebbe un perfetto talebano. «Non ho paura di sembrarlo», rivendica fiero.
Mi porta ai tavolini di un bar chiuso, nel corridoio del vicino centro commerciale La Corte completamente deserto. Luci al neon da obitorio e temperatura consequenziale. «Fa freddino», commenta. Se lo dice lui, che è una roccia. Assistono al nostro colloquio un cavallino a dondolo, un trenino che lancia ogni 30 secondi un ciuf ciuf ossessivo, un’astronave spaziale. A intervalli regolari si spande nell’aria uno jodel: credo che provenga dal «bier wagen» tirolese, la quarta giostrina a gettone. Potrebbe essere la provincia americana desolata e lunare dell’ultimo film di Steven Soderbergh.
Due mesi fa Morsut era reduce dalla sua settima stagione in A1. Nella massima divisione del volley aveva appena disputato una gagliarda semifinale scudetto con la sua squadra, la Itas Trento, contro la Sisley Treviso, nel ruolo di schiacciatore-ricevitore. Dai 13 anni, quando debuttò nel Petrarca Padova, era stato impegnato in non meno di 650 partite. I tifosi lo avevano ribattezzato Martello, per la potenza dei suoi tiri. Nei blog su Internet lo identificavano come il Re di fiori, la figura che nel mazzo da poker dei grandi ricercati in Irak era stata assegnata dagli Stati Uniti a Izzat Ibrahim Al Douri, il vicepresidente dai baffi rossi, numero 2 di Saddam Hussein. L’anno scorso aveva partecipato con gli azzurri alla World League, facendosi onore tra Francia, Bulgaria e Cuba. La sua convocazione per le Olimpiadi di Pechino del 2008 era nell’ordine naturale delle cose.
Lunedì 22 maggio il commissario tecnico della nazionale, Gian Paolo Montali, attendeva il giocatore padovano al ritiro di Salsomaggiore Terme in vista del Mondiale di volley. Non s’è visto. Quello stesso giorno il professor Vincenzo Milanesi, rettore dell’Università di Padova, lo ha presentato alla stampa nel nuovo ruolo di ricercatore presso il laboratorio di embriologia. In questo stesso ateneo, nel luglio di due anni fa, Morsut s’era laureato in biotecnologie mediche con il massimo dei voti, la lode e la consegna, evento piuttosto raro, del sigillo accademico, consistente in una medaglia che raffigura il celebre teatro anatomico voluto da Girolamo Fabrizi d’Acquapendente nel 1594 per favorire una più igienica, oltre che più scenografica, dissezione dei cadaveri. Due mesi dopo, senza mai smettere di giocare a pallavolo, il secchione aveva deciso d’iscriversi alla facoltà di matematica, la stessa dove per 18 anni tenne la cattedra Galileo Galilei. Sarà la sua seconda, ma non ultima, laurea.
La scelta di Leonardo Morsut fa rumore, di questi tempi. Non capita tutti i giorni che un ragazzo di 25 anni, miracolato da un contratto che gli garantiva 450.000 euro in tre anni, pianti baracca e burattini dopo aver assaporato l’ebbrezza dei primi 150.000, rinunciando ai rimanenti 300.000. «Era un bello stipendio, non dico di no, sui 10.000 euro netti al mese. Ma non potevo lasciare che i soldi decidessero della mia vita». Adesso, come ricercatore universitario, guadagnerà 825 euro mensili.
Non è strano che io sia qui a intervistarla di domenica?
«Da un mese sono impegnatissimo. Entro in laboratorio alle 9.30 e ne esco alle 20.30».
Ma è il giorno di Italia-Francia.
«Mai visto una finale dei Mondiali di calcio. Non ho due ore da buttare via».
Per cui stasera che cosa farà?
«Studierò. Oppure starò con la mia morosa. A Trento non avevo nemmeno il televisore in casa».
E qui a Padova i suoi ce l’hanno?
«Sì, ma l’unica cosa che guardiamo, all’ora di cena, sono le videocassette registrate dei Simpson».
Mai visti. Che cosa hanno d’interessante questi cartoni animati?
«Sono il ritratto della famiglia media statunitense. Una critica intelligente della società industriale».
Non ha nemmeno il cellulare. Rifiuta la modernità?
«Non è un rifiuto indifferenziato».
Mi spieghi le differenze.
«Rifiuto tutto ciò che rischia di portarmi a una deviazione. Vedo in giro molti maniaci compulsivi che trafficano col cellulare. Se non ce l’hai, non occorre starci attento. Un pensiero in meno».
Perché non le piace il calcio?
«È uno sport che non conosco. Non è fra quelli che ho praticato fin da piccolo».
Che sono?
«Nuoto, ginnastica artistica, tennis, pallamano, canottaggio e pallavolo».
Mi pare strano che un bambino si dedichi alla ginnastica artistica e disdegni il pallone. Sceglieva lei o sceglievano per lei i suoi genitori?
«È difficile dire. Probabilmente mi ci portavano e stavano a vedere se mi divertivo. Per esempio ginnastica artistica mi piaceva molto, anche se ero fuori misura. Non so se ha presente il campione olimpico Yuri Chechi. Lui è alto un metro e 60, io già allora ero uno e 50».
La statura elevata le ha mai procurato imbarazzi?
«No. Anzi, ero contento quando i compagni di classe mi chiamavano Sua altezza».
I suoi l’hanno mai portata allo stadio?
«Nonostante mio padre da giovane giocasse a calcio e mia madre sia figlia di un tifoso agguerrito del Padova, probabilmente non lo ritenevano un ambiente idoneo per la mia formazione».
Chi le ha insegnato a suonare l’organo?
«In realtà suono il pianoforte fin dai tempi della sperimentazione musicale alla scuola media Donatello».
Compositori preferiti?
«Beethoven, Mozart e Chopin».
Perché all’università scelse biotecnologie mediche?
«Ero incerto sulla strada da prendere. Mi è sempre piaciuto molto studiare. Senza falsa modestia, sarei riuscito a laurearmi in qualsiasi materia. Ho escluso solo economia».
Come mai?
«I meccanismi su cui si regge sfuggono alla mia comprensione. Non si dovrebbe dire, ma l’unico esame che ho copiato è stato quello di macroeconomia. Che cosa c’entrasse con biotecnologie, resta per me un mistero. Alla fine ho optato per un corso che avesse un risvolto sociale».
Poteva orientarsi su medicina.
«Dovendo studiare e giocare, i laboratori di medicina sarebbero stati incompatibili con i due allenamenti quotidiani dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19».
E com’è che ora ha deciso di mollare la pallavolo per l’università?
«A metà maggio il professor Stefano Piccolo, che era stato mio docente, mi ha offerto la possibilità di entrare nell’istituto di istologia, microbiologia e biotecnologie mediche per un dottorato di ricerca in embriologia. Non ci ho dormito per parecchie notti. Ho fatto l’avvocato del diavolo per mettermi in difficoltà. Sapevo bene che se avessi continuato a giocare da professionista fino a 40 anni, come va di moda oggi, avrei risparmiato quanto basta per vivere di rendita nei successivi 40. Mi sono dato del matto da solo. Alla fine ho deciso di accantonare l’aspetto economico della questione. Sono arrivato a uno stato di coscienza».
Interessante.
«Una bella sensazione. Non c’era più una scelta da fare. Dovevo diventare ricercatore e basta, altrimenti l’avrei rimpianto per tutta la vita. È stata una decisione che s’è presa da sola, nel senso che non sono riuscito a trovare nemmeno una ragione contraria».
S’è consultato con qualcuno?
«Con tutti. E tutti mi hanno detto: “Fa’ ciò che ti senti”. Ne ho parlato anche col mio procuratore Eugenio Gollini, che sul mio contratto aveva una percentuale del 5%. Ci ha rimesso anche lui, ma s’è comportato da vero amico: “Leo, decidi tu”».
L’hanno dipinta come il cavaliere immacolato che riscatta lo sport dalle ignominie di Calciopoli.
«Non seguendo il calcio, mi tengo lontano anche dai suoi scandali. Ho capito più o meno quel che è successo, ma non è che m’interessi molto. Comunque se la mia scelta aiuta a far pensare sulle priorità personali di ciascuno, non può che farmi piacere».
Una Pallavolopoli sarebbe inimmaginabile?
«Proprio inimmaginabile non direi».
Che sentori ha?
«Nessun sentore. Ma da buon matematico considero pura statistica l’ipotesi che certe aberrazioni del calcio possano ripercuotersi nella pallavolo. Ovunque arrivino soldi in quantità, si smarriscono le motivazioni per fare sport. Se oggi un bambino vuol diventare calciatore solo per arricchirsi in fretta e spupazzarsi le veline, mi sembra che abbiamo sbagliato qualcosa. A Trento, nel tempo libero, andavo a dare ripetizioni presso la cooperativa sociale Arianna, che assiste le famiglie disagiate, e mi scontravo con questi ragazzini che si rifiutavano di svolgere i compiti pomeridiani. Ce n’era uno, tifosissimo dell’Inter, che non voleva studiare la rivoluzione francese. “Recoba non sa nulla della rivoluzione francese”, recriminava. Mi ha messo in difficoltà».
Come mai è attratto dall’embriologia?
«La passione mi è nata studiando come si organizza una cellula destinata a diventare uomo. È un processo fra i più affascinanti. Molti meccanismi d’azione delle cellule in queste primissime fasi sono noti, ma altri sono totalmente sconosciuti e si ripresentano nei tumori e nelle malattie neurodegenerative degli adulti».
Che cosa fate in concreto nel laboratorio di embriologia?
«Conduciamo esperimenti sugli xenopus, rospi africani delle dimensioni di 10-15 centimetri. Sono anfibi già utilizzati in passato per i test di gravidanza. Il maschio feconda esternamente le uova appena deposte dalla femmina. Questo facilita le nostre osservazioni sulla genetica nei primi stadi dello sviluppo embrionale».
Quanti siete in laboratorio?
«Otto».
Molti suoi colleghi chiedono di passare al microscopio anche il prodotto della fecondazione umana. In Italia vi sono 30.000 embrioni congelati che galleggiano in un limbo di azoto liquido, abbandonati dai genitori.
«Potrebbero anche essere buttati via. O utilizzati per fini di ricerca».
Quale delle due ipotesi preferisce?
«Forse farci qualche analisi potrebbe essere più utile».
Che cos’è per lei un embrione?
«Umano? Dipende. A che stadio?».
A quello fissato dal dizionario: «Individuo nei suoi primi stadi di sviluppo dopo la fecondazione della cellula uovo».
«È un sistema straordinario e complesso che ha in sé tutte le informazioni per creare un organismo. L’embrione ne sa molto più di noi. Gli uomini s’affannano a capire ma non sono assolutamente in grado di elaborare una predizione su un effetto biologico. Invece lui sa esattamente come produrre un braccio qua, una gamba là. Dal punto di vista embriologico non vi è alcuna differenza fra il prima e il dopo, fra un embrione e un feto. Non è che a un dato momento succeda qualcosa per cui gli venga aggiunta una caratteristica in più».
Ma va considerato persona?
«Questa è una faccenda più complicata e spinosa».
Quando nasce l’uomo?
«Molto, molto difficile stabilirlo. L’unica distinzione è il momento in cui viene alla luce».
Non direi, tant’è vero che il parto può essere anticipato di due mesi. Come si può far dipendere lo status di uomo dalla decisione di un ostetrico che impugna un bisturi ed esegue un taglio cesareo?
«Vi è una continuità dall’uovo».
Appunto. Leonardo Morsut non era forse l’embrione Leonardo Morsut?
«Sì. Ma secondo lei nasce una persona quando lo spermatozoo feconda l’uovo?».
Non è quello l’inizio della vita?
«C’è molta vita anche in uno spermatozoo o in un ovulo».
Ma uno spermatozoo o un ovulo da soli non diventeranno mai persona. E comunque perché si vuole far credere che dal sacrificio di queste vite possa dipendere la cura di tutte le malattie, dal cancro alla sclerosi laterale amiotrofica?
«Vi sono ricerche molto promettenti sugli embrioni».
Mi spiace deluderla, ma il professor Paolo Rebulla, che dirige la Biobanca italiana creata per custodire i 30.000 embrioni congelati, mi ha detto: «Non esiste al mondo una sola ricerca sulle cellule embrionali che si possa associare a procedure applicabili con successo all’uomo. C’è una cellula staminale embrionale che curi il Parkinson? No, che io sappia. Una che curi l’Alzheimer? No. Una che curi il diabete? No».
«Al momento si possono solo differenziare le staminali in vitro e poi andare a vedere come attecchiscono in vivo nei mammiferi modello. Non sono certo studi a livello clinico».
Non si sente in colpa per aver rinunciato ai 300.000 euro della pallavolo? In casa sua avrebbero fatto comodo.
«In casa di chiunque. Non siamo ricchi. Ha visto anche lei, abitiamo in un condominio».
I 150.000 euro del primo anno come li ha spesi?
«Li ho messi da parte per comprarmi una casa. E ho fatto un po’ di beneficenza a una ragazza ugandese che ha aperto una scuola in un campo profughi a Kampala».
Da chi ha preso questa apertura ai bisogni del prossimo?
«Dai miei genitori. Sono cattolici di sinistra, vanno a messa, mi hanno battezzato. Da piccolo mio padre mi proiettava le filmine della Bibbia, ma non mi ha mai trascinato in chiesa. E infatti non la frequento».
È vero che vota per Rifondazione comunista?
«Alle ultime elezioni è successo. Anche alle precedenti».
Sempre, praticamente.
«In effetti prima ero troppo giovane per votare».
Che cosa c’è che non va nella sinistra da averle fatto scegliere l’estrema sinistra?
«I Ds sono troppo moderati».
Quante ore al giorno lavora?
«Dieci».
Ma non eravate per le 35 ore settimanali? Così ruba il posto ad altri.
«Fatico a considerarlo lavoro. Dipendesse da me ne farei anche più di 10 al giorno».
E se le ordinassero invece di farne 35 la settimana?
«Non potrei combinare nulla di buono».
Mi risulta che simpatizzi per i no global.
«Per i movimenti in generale, quelli che non hanno rappresentanza parlamentare e organizzano la marcia della pace».
Però beve la Coca-Cola.
«Qualche volta. Il meno possibile».
Che cosa ha fatto di male la Coca-Cola all’umanità? Non è forse più classista il Moët & Chandon?
«Non è questione di prezzo. La Coca-Cola, più dello champagne, porta all’uniformità, a far le cose senza pensare».
Credevo che bevesse per dissetarsi, non per meditare.
«Va anche bene che uno beva senza star lì a interrogarsi su come le molecole interagiranno dentro il suo intestino.

Ma si finiscono con l’accettare molte altre cose, senza ragionare, quando viene messa in atto una campagna persuasiva come quella dispiegata dalla Coca-Cola a livello planetario».
(339. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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