Il ritorno dei Portishead, re del trip-hop

Bristol, Regno Unito. Da porto industriale dell'Inghilterra periferica a ombelico del mondo del soul anni Novanta. Grazie soprattutto ai Portishead, la coppia formata dal produttore Geoff Barrow e da Beth Gibbons, la Billie Holyday dell'era tecnologica, dalla voce vellutata e inquieta, tra i maestri riconosciuti del trip-hop. Ma cos’è il trip-hop? La rivincita del deejay, del produttore, del non musicista, che può finalmente assecondare il proprio istinto. Come? Attingendo a alla propria sterminata collezione di dischi: dal jazz al blues, dall'hip-hop all'ambient e persino alla musica classica. Anche se la chiave d'accesso per capire il fenomeno trip-hop è la tecnologia. Tra il ’94 e il '97, il duo, a cui si è unito il chitarrista Adrian Utley, ha confezionato un paio di album: Dummy e Portishead. Dischi ammalianti, plumbei e claustrofobici con i quali hanno adattato il linguaggio dell'hip hip alla decadenza morale dei quartieri bianchi mescolandolo al jazz e alla musica dei film noir.

La strada era in discesa, ma la paura di non riuscire a emulare quanto fatto hanno causato un black-out creativo durato un decennio. È dunque comprensibile che il ritorno della cult band inglese faccia rumore. E che le date del tour mondiale, compresa quella milanese - domani sera all’Alcatraz - registrino il tutto esaurito.

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