Quella rivolta di Yukio Mishima, scrittore-samurai contro l'Occidente

Daniele Abbiati

«Questo libro è il mio messaggio di addio al regno della morte in cui ho vissuto. Scrivere questo libro è stato per me un suicidio al contrario». Lo disse Yukio Mishima (1925-70) a proposito di Confessioni di una maschera, il romanzo autobiografico in cui l'autore espone, come fosse uno spettacolo di autoflagellazione, il dramma del vivere la propria omosessualità. E l'essere diverso anche fuori dall'orientamento sessuale, cioè nella condotta quotidiana, nelle convinzioni politiche e nell'attaccamento spasmodico, disperato, alla tradizione è la cifra distintiva di tutto lo scrittore giapponese.

Se Dominique Venner, suicidatosi nella cattedrale parigina di Notre-Dame il 21 maggio 2013 in segno di ribellione verso una società, la francese nello specifico e l'europea in generale, incapace di difendere la propria identità, si sentiva Un samurai d'Occidente, Mishima era, simmetricamente, un anacoreta d'Oriente. La sua esistenza fu devozione e preghiera rivolta al suo Giappone classico, fatto di ranghi e ruoli, onore e riti, sacrificio e responsabilità, merito e colpa. Insomma, il Giappone dei samurai, quegli strani animali umani i quali, liberati dal vincolo di obbedienza al proprio signore, cacciati fuori dalla gabbia della dipendenza, diventano in pratica dei dead men walking, dei condannati a morte per consunzione, e vivono la loro morte civile declassati alla condizione di ronin. A uccidere l'animo di Mishima, come a ferire quello di Venner, è la decadenza del mondo in cui ci si sente fuori posto. Ma se Venner, poche ore prima di spararsi un colpo di pistola in bocca, sul proprio blog lamentava il fatto che «la Francia è caduta nelle mani di una parte islamista», la nemica del ribelle Mishima è stata l'americanizzazione che secondo lui avrebbe fatto tramontare il Sol Levante.

Siamo, per il francese, nell'oggi di soli tre anni fa, mentre per il giapponese l'oggi erano gli anni Sessanta del Novecento, ancora molto, troppo vicini a Hiroshima e Nagasaki, all'atto d'imperio di un impero contrapposto a quello del «sovrano celeste» Hirohito. Sempre in Confessioni di una maschera, c'è un punto in cui, profeticamente, si delinea il destino dell'autore. È quando dal cielo gli aerei statunitensi lanciano gli opuscoli che illustrano le condizioni per la resa del Giappone. Kochan, il protagonista e alter ego dello scrittore, osserva e pensa con rammarico che dovrà «cominciare quella vita quotidiana d'un membro dell'umano consorzio». La sconfitta era certificata, registrata sul grande libro della Storia. E a Mishima non restava che un modo per accettarla: correrle incontro con una spada in mano.

La cattedrale di Notre-Dame era la casa ideale di Venner.

Il soldato Mishima scelse altrettando idealmente una caserma, meglio ancora, l'ufficio del generale Mashita. Dopo un breve discorso fatto dal balcone alla gente accorsa nel cortile («È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito?»), tornò dentro e s'infilò la katana nel ventre.

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